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Partito Radicale Angiolo - 27 novembre 1995
DALLI AL CATTOCOMUNISTA!
di Angiolo Bandinelli

("L'Opinione", 26 novembre 1995, pag.1 e 10)

"Cattocomunista". L'accusa è inesorabile, senza appello. L'abbiamo sentita ripetere chissà quante volte in questi giorni, nel gran discutere su immigrati ed extracomunitari:"Dàlli al cattocomunista!" Ma perché tanto odio?

A scagliare veleno contro il "cattocomunista" sono le irritabili penne dei commentatori laici e liberali, liberisti e nazionalisti di destra, divisi su molte cose ma intransigentemente unanimi contro l'interlocutore che sia sospettato di riesumare, in quasiasi forma, quella ideologia del solidarismo che appare la meno scusabile, la più perversa, la più pericolosa fra le tante che insidiano i destini popperiani dell'umanità. Il solidarismo si manifesta oggi nei confronti dei clandestini extracomunitari o dei nomadi delle periferie romane come ieri si manifestò in difesa delle classi subalterne e marginali insidiate nelle loro culture dalle leggi di mercato di cui parlano Antonio Martino o Berlusconi, e l'altro ieri (ancora nella prima Repubblica) nella solidarietà per il bracciante di Matera o l'operaio meridionale sfruttato a Torino, per il campesino cubano o peruviano o mozambicano e per gli Intillimani, per il militante vietcong, il terzomondista in rivolta contro la United Fruit e il prete seguace della T

eologia della Liberazione.

Del cattocomunismo, l'Italia è patria d'elezione. La sua matrice viene fatta risalire al "dialogo coi coi cattolici" di Pietro Ingrao: nutrito di Gramsci e di Franco Rodano, finanziato dall'ENI di Mattei e Cefis, dilagante con Enrico Berlinguer, l'onnipotente Franco Tatò e un equivoco Moro (l'unico a pagare per averlo incoraggiato), contagiò anche la sinistra chic francese e vaste aree dell'eurocomunismo. I danni che ha provocato sono innumerevoli e - va riconosciuto - mai condanna fu più giusta.

Sarebbe (ed è) tuttavia ingeneroso attribuire al cattocomunismo tutti i guai e i torti di circa quaranta anni della nostra storia. Del "progressismo" di sinistra fu una delle due matrici, ma l'altra va individuata in quell'ibrido tra crocianesimo, gobettismo e marxismo che il Togliatti civettante con l'intellighenzia del dopoguerra impose come ideologia quasi ufficiale del partito. E quest'ala del "progressismo", con gli intellettuali excrociani ed exgentiliani che la fomentarono di parole e di scritti, non fu senza responsabilità nel condizionare la cultura e la politica di quegli anni: grazie ad essa, si ebbe una lettura di Croce sostanzialmente antiliberale, antieuropea, comunque riduttiva e distorta. Sotto ambedue queste forme, il progressismo gramsciano e togliattiano ebbe infatti un solo avversario, il liberalismo liberista, laico, europeo come americano.

E proprio a partire da questa degenerazione dell'eredità e della filosofia crociana va fermamente detto che di autentico liberalismo la cultura politica italiana è stata parecchio carente, nel dopoguerra. Coloro che pur si dichiaravano tali o si sono agevolmente acconciati a un ruolo subalterno alla DC cui si limitavano a suggerire qualche mediocre correttivo, o si sono adagiati nel coltivare un tranquillo orticello di moderati senza coraggio né ambizione intellettuale. Nulla è venuto da loro se non stanche ripetizioni di formule di ieri, il "primato delle regole", un certo cinismo spacciato per machiavellismo senza ideali, un laicismo (ateismo) personale irridente verso ogni forma di tentazione religiosa, la sostanziale ignoranza delle sollecitazioni della storia. Poco più. Nessuna autorità liberale ha sentito l'urgenza di almeno tentare di rompere l'egemonia democristiana con qualche coraggiosa seppur perdente battaglia. Uno sforzo eccezionale lo compì Pannunzio, accogliendo sul suo giornale l'unico grande

polemista laico del dopoguerra, Ernesto Rossi, un gigante persino nella sua ineguagliabile scrittura, tra i sommi della nostra letteratura in questo genere (si leggano le sue "Lettere dal carcere", un monumento alla dignità umana che surclassa di lontano le sfocate ma celebratissime lettere di Gramsci)

La nostra cultura politica liberale è stata timida anche se occidentalista, insipida anche se laicista, idealmente gretta anche se consumatrice di buona letteratura. Rossi era guardato male, nei corridoi del "Mondo" perché ritenuto "poco politico", un estremista inaffidabile, un "pazzariello" temperamenziale. Ma il "Mondo" si guardò bene dal sostenere la battaglia sul divorzio, e La Malfa la considerò piuttosto un disturbo del suo dialogo con la Dc che non una priorità inderogabile. Le "Prediche inutili" di Einaudi non hanno fatto granché scuola (basti ricordare le sue denuncie dell'ordine dei giornalisti) e né la "Storia del Liberalismo europeo" di De Ruggero o la filosofia del dialogo di Calogero hanno lasciato frutti di rilievo.

Anche oggi, non c'è molto da scegliere. Von Hayek va bene, e pure Friedman: ma quando quest'ultimo propone l'assoluta liberalizzazione del mercato delle droghe come unico rimedio al narcotraffico delle mafie mondiali, allora viene riposto sopra gli scaffali più alti, dimenticato come impresentabile. E nella polemica sugli immigrati, poche sono state le voci (io ricordo solo Luciano Gallino) che hanno guardato un po' oltre lo stantìo nazionalismo salandrino che la maggior parte dei neoliberali ha opposto al terzomondismo dei cattocomunisti, e hanno osato assumere a loro carico (come dovrebbe fare un liberale, liberista dei nostri giorni) gli enormi, ineludibili problemi che l'esplosione del Terzo Mondo pone all'occidente e ad ognuno dei suoi paesi.

In un dibattito intellettuale complessivamente povero si ha l'impressione che i bersagli polemici siano a volte mere teste di Turco, Mustafà-tre-palle-un-soldo presi al volo solo per darsi pace, o per accreditarsi sul terreno accademico. Siamo lontani non dico dalla profondità del pur citatissimo Tocqueville ma anche dall'etica alta di un Constant o dal rigore teorico di Friedmann. Tra riletture, citazioni e applausi, siamo assordati da una girandola di nomi buttati lì e subito abbandonati, il Dahrendorf di Veltroni o la Hannah Arendt di Flores D'Arcais o il Popper di Bobbio.

Riletture, citazioni, applausi. Che altro?

 
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