SCALFARO E GIUDICI, UN "MAI" FUORI LE RIGHE
di Giovanni Bognetti
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Abbiamo udito in televisione il presidente della Repubblica dire, ai magistrati riuniti in un convegno della loro Associazione, che la separazione delle carriere fra magistrati inquirenti e magistrati giudicanti egli "non l'accoglierà mai". E la platea gli ha dedicato un'ovazione. E' un episodio che si inquadra nello scenario ormai preoccupante della crisi delle nostre istituzioni. Una separazione delle carriere fra i due tipi di magistrati, se volesse essere integrale ed organica, dovrebbe probabilmente venir sancita con legge costituzionale. In effetti, la Costituzione prevede, tra l'altro, che nel CSM sieda il procuratore generale della Corte di cassazione: una presenza che sarebbe del tutto incongrua in una risistemazione generale del potere giudiziario che escludesse dal vero e proprio corpo dei giudici - come non pochi auspicano - i magistrati inquirenti. Se dunque la suddetta separazione fosse realizzata attraverso un'apposita, organica legge costituzionale, approvata ai sensi dell'articolo 138 della
Costituzione, non si vede come il Presidente potrebbe "non accoglierla". Egli sarebbe tenuto a promulgarla, a meno di ipotizzare che il Presidente ravvisasse in essa un attentato alla Costituzione, ossia la violazione di uno di quei principi supremi che si ritengono assolutamente intoccabili. Si stenta a credere che un'ipotesi del genere possa essere seriamente sostenuta: e ciò anche nell'ambito dell'attuale, assurda tendenza a gonfiare sino all'inverosimile, in dottrina, l'intoccabile nella Costituzione. Una separazione non propriamente integrale tra magistrati inquirenti e magistrati giudicanti potrebbe tuttavia venir realizzata anche attraverso una legge ordinaria. Ma neppure in tal caso il Presidente della Repubblica potrebbe "non accoglierla". Egli potrebbe rinviare la legge al Parlamento per una nuova deliberazione, esponendo le sue osservazioni in proposito (articolo 74 della Costituzione). Qualora però il Parlamento ribadisse la sua approvazione della legge - come è nel suo diritto e come secondo og
ni probabilità in questo caso accadrebbe - il Presidente sarebbe tenuto a promulgare. L'espressione usata dal Presidente della Repubblica è gravemente infelice: ed è il minimo che si possa dire. Si tratta di una formula che potrebbe andare nel discorso approssimativo di un capo partito il quale intendesse significare che si opporrebbe, in qualsiasi sede di sua competenza, in Parlamento o altrove, a qualsiasi progetto di legge contemplante la separazione. Sulla bocca di un Presidente della Repubblica, nel contesto di un regime ancora formalmente non-presidenziale, suona male: qualcuno potrebbe addirittura avvertirvi, a torto o a ragione, quasi un tono intimidatorio. La prassi ormai consolidata di un certo tipo di esternazioni consente al Presidente di prendere posizioni pubblicamente riguardo a problemi di riforme sia legislative sia costituzionali. L'hanno fatto, largamente, Cossiga e, in precedenza, lo stesso Scalfaro. Ma un conto è adoperare il linguaggio che, anche con toni appassionati, consiglia o scons
iglia. Tutt'altro conto è pronunciare parole che suonano perlomeno equivoche in relazione all'esercizio dei poteri presidenziali e che non si confanno al ruolo di un capo dello Stato che tutt'ora dovrebbe osservare una certa misura di imparzialità. Almeno finché un'eventuale riforma costituzionale (che peraltro proprio Scalfaro sembra non gradire) non unifichi i ruoli di capo dello Stato e di capo del Governo. Di fatto, a Taormina, la categorica affermazione del Presidente appare aver anticipato, per un momento proprio quella unificazione. Lascia altresì perplessi il fatto che dei magistrati, custodi del diritto, abbiano dimostrato, con l'applauso, di non sentire alcun imbarazzo dinnanzi a un'esternazione presidenziale che, per il suo tono, travalica i limiti della correttezza costituzionale. Ma questo è solo un altro dei tanti segni della crisi che avanza.