di Angiolo Bandinelli(L'Opinione, 20 febbraio 1996, p.1/10)
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"Heri dicebamus". Così Benedetto Croce salutava la fine del fascismo. "Ieri dicevamo": voleva significare che il discorso andava ripreso esattamente dal punto dove lo aveva interrotto la lunga parentesi mussoliniana. Forse vale anche per l'oggi. Le vicende scaturite dal ribaltone di Bossi non sono paragonabili al fascismo, ma il tandem Scalfaro-Dini ha gravi responsabilità nel deterioramento politico, economico ed anche istituzionale del Paese che tutti constatano e lamentano. Bisogna voltar pagina.
Ieri; ma quale ieri? Non vi è dubbio: lo spartiacque è quel 27 marzo 1994 che vide nascere e prendere miracolosamente corpo una ipotesi di reale alternativa alla gestione consociativa, partitocratica, di "unità nazionale" o come la si voglia chiamare, che ha retto il Paese, nel bene e nel male, necessitata o endogena, lungo tutto l'arco del dopoguerra, o almeno dal centro-sinistra degli anni '60.
Quel centrosinistra nacque in balìa di un sistema di potere ancorato alla filosofia politica della sinistra democristiana e di vaste aree dei partiti del tempo (fossero di destra estrema come il MSI o di sinistra, PSI, PSIUP o PCI) e annidato nei gangli della grande industria di Stato - IRI ed ENI - organicamente installatasi tra i protagonisti "politici" prima che economici. Quando l'accordo decollò, Riccardo Lombardi, che dirigeva il giornale socialista "L'Avanti", "sparò" in prima pagina un famoso titolo: "Da oggi siamo tutti più liberi". Si illudeva, e con lui si illusero molte anime generose, pugnaci e libere, convinte che da quel passo sarebbe venuto solo bene al Paese, ai suoi cittadini, a milioni di lavoratori. In realtà, in quel momento venne messo in incubatrice l'uovo fatale da cui doveva nascere il mostriciattolo a mille teste che in pochi anni avrebbe triturato la società civile e le istituzioni riducendole in nauseabonda poltiglia: la Partitocrazia.
Il mostro, come sappiamo, è vissuto a lungo. Fino al 27 marzo di due anni fa. Era anzi convinto di poter durare molto di più. Perciò fu enorme e immediato lo sgomento per quel voto e le conseguenze che subito fece intravedere, largamente inaspettate presso la gran parte degli osservatori più attenti e documentati. Per giungere alle elezioni il Presidente Scalfaro forzò tempi e situazioni, liquidando in modi ancor oggi oscuri e inspiegati un Governo Ciampi che fino all'autunno si era comportato decorosamente, e persino imponendo con sospetta e irragionevole fretta, quale data elettorale, la domenica della Pasqua ebraica. Si voleva andare alle elezioni comunque e a tutti i costi perché era certa e scontata la vittoria, ancora una volta, del blocco di potere di sempre.
E' da lì che occorre ricominciare. In questi ultimi mesi, anche le forze portatrici delle novità del marzo 1994 sono sembrate incerte e confuse, a volte inclini ad accordi e a cedimenti, o quanto meno non restie a trovare intese e patti, accomodamenti o "inciuci" con Ulivo, affini e collaterali. Dubbi e perplessità sono state amaramente sofferti da molti di coloro che alla vittoria del Polo avevano guardato con speranza. Si è temuto a lungo, e non senza fondamento, che la grande carica rinnovatrice messa in moto da quella vittoria fosse destinata ad arrestarsi, ad essere definitivamente bloccata.
Sarebbe davvero grave se, riapertosi finalmente il discorso elettorale, ci si inchiodasse immobili su certe pretese minimalistiche e fuorvianti. Le prossime elezioni hanno una importanza eccezionale, su di esse pesa un'attesa che non può ancora essere elusa. Esse non solo e non tanto consegneranno alla parte vincente un mandato a governare, a governare comechessia: esse dovranno spalancare le porte alla realizzazione delle grandi, difficilissime, urgentissime riforme di cui il Paese ha disperatamente bisogno per restare agganciato - in una forma o nell'altra - al carro dell'Europa, dell'occidente, del mondo produttivo, liberale e liberista. Grandi, difficilissime e urgentissime riforme: nell'economia come nella giustizia, nelle strutture dello Stato come nella cultura. E' ineludibile, ormai: questo Paese va ripensato più o meno ex novo, per farlo uscire dalla "bonaccia delle Antille" di cui Calvino vide solo i prodromi senza neppur sospettare quanto asfissiante e perniciosa essa sarebbe stata nel suo lunghis
simo durare.
Una rivoluzione - vorremmo dire - è dovuta: una rivoluzione liberale. Non v'è alternativa o ripiego concepibile. E dunque è necessario che le forze autenticamente liberali si riconoscano, si uniscano e si mettano in cammino. Inutile dire da qual parte questa intesa è possibile e sperabile. Propensioni, buone volontà di ispirazione umanistico-liberale sono presenti da tutte e due le parti, ed anzi vorremmo dire che sul piano genericamente culturale esse sono persino più abbondanti sotto le fronde variegate dell'Ulivo: c'è un istinto della paura, uno sconcerto e una sfiducia antica che spingono molti intellettuali e persone dabbene a schierarsi dalla parte che sembra più sicura e affidabile solo perché è più adusa a manovrare concetti, carta stampata e convegnistica varia. Sul piano strutturale, invece, non vi sono dubbi, le speranze liberali, liberiste e persino libertarie (alla Martino, se non altro) stanno tutte sull'altra barca. Ma solo se qui, in tutte le sue componenti, si vorrà tenere occhi aperti e ner
vi saldi, non cedendo al ricatto della paura.
C'è una illusione pericolosa, che sentiamo circolare in molti ambienti cui spettano le scelte determinanti. L'illusione di dover essere condiscendenti verso il cosidetto moderatismo. Il Paese, si dice, vuole tranquillità, aspira ad una gestione senza scossoni, tollerabile da massaie e pensionati. E dietro questa illusione avvertiamo poi le manovre di chi, pagato un nominalistico assenso alle riforme, punta invece, ancora una volta, a che tutto resti come prima.
Pericolosa illusione, manovre irresponsabili. Proprio i moderati, le massaie e i pensionati con il loro reddito fisso e le loro modeste sicurezze, hanno urgenza di una assunzione coraggiosa di responsabilità, di gente che sappia rischiare ed osare per trasformare il Paese, per dargli quella "rivoluzione" di cui da sempre sentiamo parlare come della Grande Incompiuta della sua storia, e che non può che essere l'apertura "einaudiana" verso il mondo che cammina e preme su di noi e sull'Europa: il mondo dei mercati e della telematica, dell'efficienza e della giustizia essenziale all'efficienza, dell'audacia individuale e della responsabilità del cittadino, della saggezza del consumatore e delle attese dell'utente, dello scambio interculturale e dei linguaggi, del dialogo tra le "cose" come tra le persone.
Sapranno, le forze che realizzarono il miracolo del 1994, rinnovarne i valori e le indicazioni? O cederanno al peggio di se stesse, che pure è a lungo affiorato e ci ha fatto disperare?
Angiolo Bandinelli