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Partito Radicale Rinascimento - 15 aprile 1996
EPOCA LUNEDI' 15 APRILE 1996

DALLA LIBERIA ALLA SOMALIA

L'AFRICA VIOLENTA VE LA RACCONTO IO

Testo di Emma Bonino

pag.36/45

A Monrovia è un genocidio. A Mogadiscio anche. E in Sudan, Ruanda e Burundi il massacro continua. Ecco il diario di un viaggio all'inferno. Firmato da un inviato molto speciale. Che ha rischiato la vita.

Fra le responsabilità di Emma Bonino, commissario europeo, c'è quella di dirigere l'azione di Echo, l'Ufficio umanitario della Comunità, che distribuisce aiuti d'emergenza in oltre 60 Paesi del mondo dilaniati da conflitti sempre più feroci: dalla Liberia - improvvisamente tornata alla ribalta degli orrori - alla Somalia, passando per la Cecenia, l'Afghanistan e la regione africana dei Grandi Laghi. Reduce da una missione nei luoghi più sventurati dell'Africa orientale (a Kisimayo, Somalia, si è trovata al centro di furiose sparatorie) la Bonino ha scritto per Epoca questo diario di viaggio.

"Non mi era mai capitato di trovarmi nel mezzo di una sparatoria. E tanto meno di partecipare, nell'intervallo fra due scontri a fuoco, a una riunione dedicata all'aiuto umanitario presieduta da un tipo come il generale Said Hersi 'Morgan', armato fino ai denti, granate e borraccia alla cintura. Mi è accaduto a Kisimayo, Somalia, nel giorno di Venerdì Santo, penultima stazione di un lungo pellegrinaggio attraverso 5 Paesi africani e la loro infelicissima realtà. Non apro il diario di questo viaggio con l'avventura di Kisimayo perché l'episodio mi sembra eccezionale. Al contrario. Mi ha colpito piuttosto constatare quanto naturale possa divenire l'uso della violenza più gratuita, quella che porta gli uomini a sparare su altri uomini per niente, anziché alzare la voce, o suonare il clacson.

Violenza "africana"? No. Scene uguali a quella che io ho vissuto in Somalia e altri vivono in Liberia, le ascolto ogni giorno dagli operatori umanitari presenti nei Balcani, nel Caucaso, in Afghanistan, in Centroamerica.

Nel 1995, il mio primo anno da commissaria europeo responsabile di Echo, l'Ufficio per l'aiuto umanitario, la comunità internazionale ha bruciato circa 4 miliardi di dollari (oltre 6 miliardi di lire) per affrontare una cinquantina di queste catastrofi provocate dall'uomo, molte delle quali cronicizzate. E' un enorme fardello, che pesa quasi interamente sulle spalle di due soli donatori, Europa e Stati Uniti. Come uscire da questo tunnel? Il problema figura fra quelli che, nel dicembre scorso a Madrid, Unione Europea e Stati Uniti hanno incluso un un'agenda comune destinata a sviluppare una "cooperazione transatlantica" di cui questo viaggio in Africa è il primo esperimento.

Nairobi (Kenya), domenica 31 marzo

L'appuntamento è con Brian Atwood, amministratore dell'Usaid, l'agenzia governativa per l'emergenza e lo sviluppo. Ci aspettano tre giorni di ricognizione nella regione "dei Grandi Laghi", teatro di una crisi a più facce: il Ruanda del dopogenocidio, il Burundi sull'orlo di un altro genocidio, un popolo d profughi (1,7 milioni di persone) accampati da due anni in Zaire e Tanzania con la prospettiva di rimanervi a tempo indeterminato. Solo per contenere le sofferenze umane e i rischi politico-militari, l'Europa brucia nei Grandi Laghi 400 mila dollari (seicento milioni di lire) al giorno.

Bujumbura (Burundi), 1 aprile

Ritorno nella capitale del Burundi a un anno dalla mia prima visita e la trovo assediata. Malgrado il coprifuoco, il territorio considerato sicuro si estende per appena 25 chilometri attorno alla città. Il resto del Paese, poco più grande di una regione italiana, è teatro delle efferatezze incrociate compiute dalle bande armate hutu, avanguardia estremista di un etnia che rappresenta l'80 per cento della popolazione, e dall'esercito dominato dai tutsi, l'aristocrazia pastoral-guerriera (18 per cento della popolazione) che da sempre domina il Paese. Nessuno è in grado di calcolare le vittime di questa guerra civile. Le stime più prudenti parlano di centinaia di morti a settimana. Il Burundi è verdissimo ma Bujumbura scarseggia il legno per le bare. I tusti del Burundi, come in passato le minoranze bianche del Sudafrica e della ex Rhodesia, appaiono dominati dall'angoscia dello sterminio che potrebbero subire se spartissero il potere con la maggioranza. E purtroppo non si vedono uomini della stoffa di Mandela

e De Klerk. Trovo i moderati delle due parti, alleati in un fragilissimo governo, meno moderati di un anno fa. Impermeabili ai messaggi allarmati miei e di Atwood.

I funzionari delle agenzie umanitarie internazionali e i volontari delle "organizzazioni non governative" finanziate da Echo - autentici eroi sconosciuti - fanno il loro lavoro con sempre maggior rischio e sempre minori risultati. Il Burundi è il primo luogo dove, fuor di metafora, si è sparato sulla Croce Rossa.

Kigali (Ruanda), 2 aprile.

Sull'aereo che porta da Bujumbura a Kigali, capitali di Paesi gemelli per geografia e composizione etnica, ripercorro i fatti principali accaduti in Ruanda dopo il 1994. Un genocidio, le cui vittime, nella quasi totalità tutsi, si calcolano fra 500 mila e 1 milione. Un esodo biblico dai Paesi vicini di due generazioni di profughi tutsi, circa un milione di persone, sfuggite ai progrom iniziati nel 1959.

Se a Bujumbura il potere è troppo debole, a Kigali è fin troppo forte. Formato dal movimento armato tutsi che nel 1994 mise fine al genocidio, il governo ruandese, costretto a governare in condizioni difficilissime e criticato per il suo stile autoritario, rinfaccia al mondo intero, Unione Europea compresa, di non capire né l'eccezionalità della situazione, né soprattutto il trauma psicologico che continua a incombere sul Paese.

Manifesto ai dirigenti ruandesi il rispetto che la loro tragedia mi incute, ma non posso tacere sulle nuove violazioni dei diritti umani. Privo com'è di un sistema giudiziario, ma fermamente deciso a perseguire i responsabili del genocidio, il governo aveva già stipato l'anno scorso nelle poche carceri del Paese 27 mila "sospetti". Ne avevo visti con i miei occhi 7 mila, di quei detenuti, ammassati come animali da macello nella prigione di Kigali, costruita per ospitarne 500. Fu un pugno nello stomaco. Oggi nello stesso circuito carcerario ci sono 70 mila persone. Fra marzo del 1995 e aprile del 1996, le autorità hanno imprigionato in media 850 persone a settimana, senza scarcerare o interrogare nessuno. Non ci sono giudici in Ruanda. Trecento giovani diplomati stanno per essere nominati magistrati dopo un corso di tre mesi.

La tensione a Kigali non è per le strade ma nelle stanze del potere, dove la priorità assoluta è la sicurezza interna, minacciata dalle bandehutu che dai campi oltre frontiera organizzano sanguinose incursioni. Il generale e vicepresidente Paul Kagame, il "liberatore" che oggi è l'uomo forte di Kigali, accusa il dittatore dello Zaire, Mobutu, di soffiare sul fuoco, ospitando e armando gli estremisti hutu.

Ngara (Tanzania), 3 aprile.

In giro per l'Africa qualcuno chiama "campi a quattro stelle" gli accampamenti sorti nel '94 in Zaire e Tanzania per ospitare due milioni di hutu in fuga. La macchina umanitaria internazionale dà il meglio di sé, garantendo assistenza sanitaria, sicurezza alimentare, istruzione. E' molto di più quanto offra la periferia di qualsiasi capitale africana, ma provate voi a vivere come i 450 mila parcheggiati da due anni qui attorno, sotto un tetto di plastica e senza nessuna prospettiva di tornare a casa.

Mogadiscio (Somalia), 4 aprile.

Dopo qualche ora di sosta a Nairobi, per congedarmi dagli americani, eccomi nel ruolo del primo visitatore ufficiale in Somalia da quando, due anni fa, fu ritirato il contingente dell'Onu. L'Unione Europea è quasi l'unico donatore che ha continuato a distribuire aiuti e assistenza.

La prima sosta è a Belet Weyn, polverosa cittadina in riva allo Shebeli, in mezzo a una piana desertica. I due clan che abitano Belet Weyn sono piccole comunità così sprovviste di mezzi da non riuscire a far funzionare il piccolo preziosissimo ospedale costruito dalla cooperazione italiana negli anni Ottanta e sfuggito alle bombe.

Mogadiscio, senza averla vista mai, mi sembra già di conoscerla. Basta il giardino di una casa ben tenuta, circondata dalle solite mura alte, bianche di calce, per cogliere la dolcezza perduta di questa città in riva all'Oceano. A Mogadiscio Sud i miliziani del generale Aidid stanno combattendo una sanguinosa battaglia, ma noi non sentiamo nemmeno l'eco degli spari. Il capo riconosciuto di Mogadiscio Nord, Ali Mahdi Mohamed, mi riceve insieme ai delegati delle 15 fazioni che lo hanno appena riconfermato nella sua carica. Gli auguro buona fortuna, ma incontrando i soliti eroi silenziosi del volontariato, molti italiani, mi rendo conto che la crisi somala resta, da oltre tre anni, unica nella sua gravità: un intero popolo, da 5 a 7 milioni di persone, cui nessuna autorità fornisce più alcun servizio sociale. Si può essere stufi quanto si vuole dei giochi di guerra delle fazioni, ma nessuno può pensare di sospendere gli aiuti umanitari ai somali. Lo dirò forte a Bruxelles.

Kisimayo (Somalia), 4 aprile.

Che lezione traggo dalla sparatoria di Kisimayo? Intanto la conferma che il leggendario generale Mohamed Aidid è solo il principale ostacolo alla pacificazione. Ho fatto di tutto per incontrare anche lui: l'azione umanitaria è neutrale per definizione. Ma quando a Kisimayo mi sono ritrovata alle calcagna uno dei suoi vice che voleva mandare a monte la mia missione, ho capito che bisognava ignorarlo, occupandosi di cose serie: colera, tbc, malnutrizione.

Labone (Sud Sudan), 6 aprile.

Ultima tappa. In 13 anni di guerra civile, condotta dalle popolazioni afro-nilotiche del Sud, cristiane a animiste, per sottrarsi al disegno di arabizzazione e islamizzazione forzate del regime integralista di Khartum, è la prima volta che il rappresentante di un'autorità governativa, la Commissione dell'Unione Europea, visita i "territori liberati", in mano al movimento nazionalista. In che altro modo dimostrare alle vittime di questa guerra interminabile (1 milione di morti, da 2 a 3 milioni di profughi, epidemie, carestie) che il mondo non li ha dimenticati?

L'aeroplanino che scende sulla terra molle e nera di Labone è il primo a ritornare qui dal novembre del 1995. Sorta nel 1994 come un campo profughi, ma interamente costruito secondo le tradizioni locali, fango e paglia. Labone offre ai suoi 45 mila abitanti pace, una terra fertilissima e servizi cogestiti da qualche volontario internazionale e dai quadri del movimento nazionalista.

Labone è solo un'isola. Per rendersene conto basta ripiegare in territorio kenyano, in quella grande retrovia umanitaria della guerra sudanese che porta il nome di Lokichoggio. Una grande base logistica che distribuisce tutto quel che può, fin dove può e nel cui ospedale i mutilati dai coccodrilli e dalle iene. L'ottimismo, purtroppo, non abita neanche qui. Tutti aspettano un'offensiva della guerriglia contro i governativi, dalle frontiere con lo Zaire a quelle con l'Etiopia.

Sarà, dicono, un passo decisivo verso la liberazione del Sudan del Sud. Forse. Certo sarà una nuova catastrofe umanitaria.

 
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