Radicali.it - sito ufficiale di Radicali Italiani
Notizie Radicali, il giornale telematico di Radicali Italiani
cerca [dal 1999]


i testi dal 1955 al 1998

  RSS
lun 10 mar. 2025
[ cerca in archivio ] ARCHIVIO STORICO RADICALE
Conferenza Movimento club Pannella
Partito Radicale Angiolo - 5 agosto 1996
DOPO LA SENTENZA
di Angiolo Bandinelli

(L'Opinione, 4 agosto 1996)

L'urlo di indignazione che ha seguito la lettura della sentenza Priebke è sembrato, per un istante, riportare la coscienza, il sentimento pubblico, indietro di mezzo secolo: è stato la forma, l'unico modo ancora possibile e quindi lungamente atteso, con cui rivivere il dramma di allora nella sua puntuale immediatezza ed intensità. I giovani ebrei, gli stessi parenti delle vittime, nel 1944 non c'erano, in gran parte non erano nati. Le testimonianze, le ricostruzioni, gli indizi, le voci ascoltate durante il processo avevano caricato quei partecipi spettatori di spezzoni di immagini, di sensazioni, di rievocazioni: ma senza peso, sbiadite, prive di vita reale, povere di sangue e di carne. Con la finale esplosione, nell'urlo e nel pianto, le immagini sfocate, le lontane sensazioni, le emozioni illanguidite hanno potuto riassumere ed esibire una corporeità dolente, far assaporare il bruciore delle lacrime, la passione rovente, i battiti scanditi del cuore. Un privilegio straordinariamente offerto, e subito racc

olto da una tesa sensibilità collettiva, per poter "mettere in scena" l'antica tragedia.

Era inevitabile che la sentenza apparisse come l'incongrua risposta di un "corpo separato" che imponeva al processo, ai presenti, alla gente in attesa i propri valori: a ragione o a torto subito apparsi, appunto, "separati", lontani, incomprensibili. I giudici militari si sono stupiti delle reazioni dell'opinione pubblica. Sicuramente erano (e sono) convinti di aver agito nel massimo della correttezza, dell'equità e dunque della giustizia. Non hanno nemmeno sospettato che i loro schemi giuridici potessero apparire lontani dalla coscienza, dalla vita circostante. La sentenza si è intersecata con l'urlo dei parenti, ma i due eventi non si incontravano, erano distanti l'uno dall'altro le mille miglia.

Ma appellarsi all'implacabilità della giustizia dopo mezzo secolo è possibile e accettabile? In nome di cosa? Del proprio dolore? Dei propri sentimenti? I cinquanta anni trascorsi sono stati un inferno, certamente, per il loro protagonista. Priebke ha vissuto, coerentemente e integralmente, due vite: con una di esse, la seconda e più lunga, cercando di far perdere le tracce e affidare all'oblio l'altra, la prima e più breve; sicuramente intensa, ma poi cancellata e sepolta nei giorni e nelle ore di un'altra vita lunga cinquanta anni, organizzata e vissuta con una meccanica, ossessiva precisione per far sì che nulla trapelasse della precedente. Ed ecco che ad un tratto quest'uomo artificiosamente sdoppiato ha dovuto recuperare, far rivivere, la metà di sé dissoltasi nel tempo. Reincarnarla. Con il processo si è voluto che Priebke tornasse ancora una volta l'ufficiale delle SS che era stato da giovane e poi non più; e Priebke si è letteralmente ri-vestito di quella parte, cancellando i cinquanta anni vissuti d

a modesto borghese nella anonima cittadina argentina. Una giravolta mostruosa, oltre il grottesco.

Il popolo ebreo ha recepito in sé, in quanto comunità, i sentimenti dei suoi figli, e li ha fissati in un ricordo stereotipo che cancella il tempo e attualizza le vicende senza curare degli anni (tra poco, anche dei secoli) trascorsi, per imporle come fossero un oggi. Ma in questo traspare, è evidente, più una incongruenza, più di una forzatura. Per esempio, ancora: nella vicenda delle Fosse Ardeatine, l'olocausto si è una volta di più palesato, al di là della sentenza degli uomini, un groviglio carico di terribilità morale e di un orrore totale. Che però vive di una sua vita esclusiva e separata e non intende per nulla farsi carico dell'orrore che si sprigiona da Sarajevo, da Sebrenica, dalle foreste e savane d'Africa dove pure in queste stesse ore altri genocidi ed olocausti vengono compiuti nel segno di una identica ideologia. In quel lontanissimo tempo in cui a Roma, come in uno dei lager o dei gulag sovietici disseminati in Europa, si compivano i misfatti per cui si è invocata una giustizia assoluta e i

ntransigente, prendeva infatti corpo una realtà che continua a segnare, a scandire il nostro secolo in una ininterrotta continuità: genocidio e olocausto sono nelle sentine del secolo come una sequenza unitaria, che nasce da una identica cultura, una concezione della vita e della società che si perpetua senza soluzioni.

E' una barbarie che inquina irrimediabilmente il secolo del disincanto weberiano, il secolo che si vanta delle più grandi conquiste scientifiche e tecnologiche che l'umanità abbia mai realizzato nella sua intera storia. I suoi focolai non sembra vogliano in alcun modo spegnersi, affievolire le loro fiamme d'inferno. L'olocausto vive tra noi, addirittura, con una sua incredibile pretesa all'innocenza: in Jugoslavia coloro che se ne rendono, che se ne sono resi colpevoli fino a ieri, ci guardano stupiti del nostro stupore, e ci domandano di che mai, perché mai ci facciamo meraviglia. La barbarie ci è contemporanea, ma ci rifiutiamo di ammetterlo.

Non lo sapevano probabilmente, non lo sanno i parenti delle vittime di Priebke in rivolta contro la sentenza. Non crediamo che essi abbiano pianto alla vista delle fotografie dei crani disseppelliti a Sebrenica o in altre delle fosse serbe e che, certamente, non erano dissimili in orrore (il foro alla nuca, visibilissimo!) da quelli scavati e riemersi dalla fanghiglia delle Fosse Ardeatine. Pensiamo proprio che non abbiano pianto, non abbiano gridato. Il dolore per la sentenza ingiusta li ha investiti (quanto contraddittoriamente!) nel loro "privato" o nella loro sensibilità, nei loro sentimenti etnico-religiosi: non nella loro "umanità", nel loro essere uomini e donne accanto ad altri uomini e donne tutti assieme colpiti dal dramma del secolo. Una frattura sconcertante, una occasione sicuramente perduta. Vogliamo ammetterlo?

Qualcuno ha ricordato che le Fosse Ardeatine sono un fatto italiano, "romano"; sì, ma l'olocausto è senza frontiere, dilaga nel mondo, e in particolare nella nostra civilissima Europa. Razionalmente, lo respingiamo: ma nella sua continua, presuntuosa ricerca di oggettività e di razionalità, nella conclamata denuncia di tutte le ideologie, la nostra epoca appare invece sempre più intrisa di irrazionalità profonde, senza scampo.

E ora, speriamo solo che nessuno pensi che vogliamo, con queste considerazioni, scagionare Priebke o, peggio ancora, dimenticare le Fosse Ardeatine (e Via Rasella).

 
Argomenti correlati:
stampa questo documento invia questa pagina per mail