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Partito Radicale Rinascimento - 2 novembre 1996
IL GIORNALE 2 NOVEMBRE 1996

REFERENDUM, UN'ARMA DEMOCRATICA MA BASTANO TRE TOGHE PER ANNULLARLA

Articolo di fondo di Massimo Teodori

Pochi politici ammettono ma molti italiani sanno che il referendum, negli oltre venti anni di funzionamento, ha rappresentato una straordinaria arma democratica. Da quando per la prima volta nel 1974 si votò per il divorzio fino alle ultime prove del 1993 sulla legge elettorale e del 1995 sulla libertà d'antenna, i referendum hanno sempre aperto nuovi orizzonti. Sia quando hanno costretto la politica a occuparsi di argomenti cari ai cittadini ma ostici ai Palazzi, sia perché hanno consentito agli elettori di scegliere direttamente le riforme che preferivano azzerando gli estenuanti negoziati partitici.

Senza referendum non avremmo avuto in Italia importanti diritti civili, o avremmo atteso molto più tempo per riforme annacquate. Semza i referendum si continuerebbe a credere che il finanziamento pubblico ai partiti è cosa dovuta dai cittadini e dallo Stato. Senza i referendum non sarebbe mai stato introdotto il sistema maggioritario, la sola riforma che ha sconfitto la partitocrazia per via democratica e non per mano giudiziaria. Senza i referendum non vi sarebbe stata una linea di resistenza al consociativismo.

Per questo lo strumento referendario ha arricchito la democrazia, e seguita ad arricchirla. Per questo la maggioranza dei partiti, soprattutto quelli più tradizionali, nutre una profonda diffidenza se non addirittura una vera e propria ostilità per un modo di decidere ritenuto destabilizzante. E nello stesso modo si continua a pensare oggi nei confronti dei venti referendum presentati dai riformatori pannelliani che hanno raccolto le prescritte 500mila firme, e degli altri dodici avanzati dalle Regioni. La verità è che, indipendentemente dal contenuto, l'arma referendaria disturba il manovratore perché è sì destabilizzante, ma dei più stantii equilibri politici.

Non è casuale quel che sta accadendo in questi giorni con l'accesa diatriba tra bicameralisti e costituentisti intorno al modo più opportuno di fare le riforme, mentre si ignorano i referendum che sono sul tappeto e che ceramente offrono una soluzione che, per quanto imperfetta, è molto più concreta delle altre due. Infatti, alla resa dei conti, sarà difficile che la Bicamerale, tra conflitti e veti d'ogni genere, riesca ad approdare a qualcosa di serio; e che la Costituente superi lo stadio di aspirazione, sacrosanta sì, ma molto ipotetica. Al contrario i referndum sono a portata di mano degli italiani i quali fra qualche mese potranno esprimersi se vogliono o no alcune riforme istituzionali (legge elettorale, potere giudiziario, poteri regionali), economiche (liberalizzazioni), antiburocratiche (sanità, registro automobilistico, affitti, ordine giornalisti) e civili (caccia, droghe, aborto). A meno che...

A meno che i quesiti referendari vengano bloccati dalla Corte costituzionale che secondo una legge del 1953 e non già in forza dell'art. 134 della Costituzione, deve pronunziarsi sull'ammissibilità di ogni richiesta. L'esperienza insegna che i giudici togati sono molto più sensibili al mondo politico maggioritario che non alla scienza giuridica neutrale. Ed è difficile capire oggi quale sarà l'orientamento della Consulta perché peseranno su di esso i tre nuovi giudici che saranno presto nominati dal presidente della Repubblica. Qualche mese fa Scalfaro, in una delle sue inopportune sortite politiche, affermò che "i referendum sono troppi". Non vorremmo che le nomine di sua pertinenza - si parla di Guido Neppi Modona, pidiessino storico, Piero A. Capotosti, di area cattolica, e Fernanda Contri, socialista amatiana - fossero ispirate, oltre che dalla congenialità con l'Ulivo, anche dal calcolo sul loro futuro atteggiamento favorevole al maltusianismo referendario.

In un'atmosfera paludosa come l'attuale, la democrazia italiana ha più che mai bisogno di referendum, non solo come alternativa all'immobilismo parlamentare ma anche come stimolo alle forze istituzionali riformatrici favorevoli a più libertà e diritti per il cittadino e meno potere allo Stato. Se la Corte non mantenesse aperto un dialogo con i fautori del cambiamento istituzionale, farebbe un cattivo servizio al Paese tutto che perderebbe uno degli strumenti democratici più vitali.

 
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