Pubblichiamo l'intervista al commissario europeo Emma Bonino uscita nell'ultimo numero di 'Ideazione':
NONOSTANTE TUTTO VALE LA PENA DI ENTRARE IN EUROPA
'Oggi neppure un Paese grande e potente come gli Stati Uniti puo', da solo, governare le crisi del mondo . Come potremmo riuscirci noi?
Vorrei iniziare questo colloquio riportando una sua citazione che, a mio avviso, offre un approccio realista al problema dell'integrazione europea. Lei ha affermato: 'Ogni distrazione, in questa Comunita', ha un costo psicologico ed economico'. Emerge la visione di un'Europa fortemente competitiva, nella quale gli stati difendono con tenacia i rispettivi interessi. L'Europa, insomma, si forma attraverso il conflitto e lo scontro, mentre in Italia si e' a lungo creduto che l'integrazione avvenisse attraverso la pacifica definizione degli interessi comuni: una sorta di buonismo continentale. E' esatta questa analisi?
R. Si ed e' una fortuna che cio' accada, perche' credo che nessuno abbia mai immaginato un'Europa omogenea, omogeneizzante e soprattutto omogeneizzata. La nostra forza e' di trovare le sinergie nelle differenze, il che vuol dire scontrarsi anche culturalmente. Faccio un esempio: alcuni Stati, come la Francia e il Belgio, difendono i monopoli con tutto quello che ne deriva: altri, come Inghilterra e Germania (e spero, fra poco, anche l'Italia), difendono le privatizzazioni. E nella ricerca di un futuro modello europeo e' molto meglio che una soluzione originale nasca da questo scontro culturale. Il problema e' se lo scontro porta alla definizione di una posizione comune, attraverso un compromesso di alto profilo, o se ci si riduce a raggiungere piccoli accordi su un minimo comune denominatore.
D. Un conflitto sempre latente e' quello tra chi spinge verso la nascita di istituzioni realmente comunitarie e chi invece predilige accrescere il ruolo degli elementi intergovernativi.
R. E' un punto alla base della costruzione europea, ma che dovrebbe essere affrontato con maggior chiarezza da parte di ognuno. Sino ad ora gli unici con una posizione trasparente sono gli inglesi, che preferiscono una grande zona di libero scambio, sempre piu' allargata a nuovi Paesi, nella quale non vi siano aspetti di politica comunitaria. Tra i filo-comunitari, con l'eccezione della sola Germania, prevale una sorta di ambiguita' che e' facile rintracciare nei dibattiti in corso. La stessa Conferenza intergovernativa e' partita con premesse poco chiare: le opposte posizioni di Inghilterra e Germania non sono poi cosi' nette; la Francia si muove su una linea sostanzialmente intergovernativa; manca completamente una posizione esplicita da parte di altri grandi Paesi, come la Spagna o l'Italia. Questa Conferenza rappresentava una grande occasione, invece temo che la sprecheremo, riducendoci ad un accordo su un minimo denominatore. Continueremo con le stesse istituzioni, create per sei membri, adattate a quin
dici, incapaci di governare un'Unione a venti Stati.
D. E avra' prevalso la posizione inglese.
R. Si, alla fine accetteremo, magari non dichiarandolo, una semplice zona di libero scambio senza neppure aver combattuto l'altra battaglia.
D. Sull'altra battaglia, pero', bisognera' intendersi. Perche' i dubbi non riguardano solo gli inglesi. Per parlare di casa nostra, esponenti autorevoli del liberalismo italiano guardano con grande scetticismo al progetto dell'Europa di Maastricht. Il timore e' che la costruzione a tavolino di un'Europa comunitaria finisca con l'avvolgere l'intero continente in una rete di leggi, regolamenti, costrizioni, magari mutuati da sistemi ingessati vigenti in alcuni Paesi guida, che invece di accrescere le potenzialita' di sviluppo finiscono per soffocarle.
R. Io penso che le domande da porre a questi scettici siano le seguenti: di fronte alle sfide mondiali della globalizzazione sono piu' efficaci quindici Stati autonomi, con quindici politiche estere e altrettante politiche economiche e di sicurezza? Oppure e' piu' efficace una comunitarizzazione di queste politiche? Alla Francia, che ritiene di poter meglio agire autonomamente in politica estera, io rispondo: non e' vero. I francesi, da soli, avrebbero affrontato le crisi internazionali con dichiarazioni piu' fantasmagoriche, ma in pratica neppure loro hanno piu' i mezzi militari o finanziari adeguati agli sforzi di una politica interventista.
D. E agli euroscettici Italiani? A chi, ad esempio, soppesando i costi e i benefici dell'Unione monetaria europea, dice 'Forse non conviene' cosa risponde?
R. Mi dicano, allora, quale e' l'alternativa. E, soprattutto, mi valutino i costi e i benefici dell'esclusione dall'Europa. Non solo in termini economici, ma anche politici. La verita' e' che oggi, neppure un Paese tanto grande e potente come gli Stati Uniti d'America puo', da solo, governare le crisi del mondo. Volete che ci riesca un piccolo Stato europeo? Questo e' il punto: le sfide del Duemila impongono lo sforzo di costruire un'entita' piu' grande, l'Europa, che abbia i mezzi e l'autorevolezza per difendere i nostri interessi. Francamente, di fronte a questo concetto, mi pare che le obiezioni siano piuttosto fragili. Poi, noi non siamo gli Stati Uniti, ogni stato europeo si porta sulle spalle millenni di storia e di tradizioni differenti. Ma se almeno l'opzione di fondo fosse interiorizzata, faremmo un bel passo in avanti. Su come costruirla, questa Europa, discuteremo e litigheremo. Intanto, incamminiamoci senza piu' indugi.
D. Per il momento, l'unico dei pilastri di Maastricht, su cui ci stiamo incamminando, e' quello della moneta unica. Affidiamo il successo o la crisi della costruzione europea all'aspetto meno politico che si potesse immaginare. Non e' una contraddizione?
R. Veramente, io vedo al moneta unica come un processo molto piu' politico che economico. Da sempre io sono una sostenitrice della politique d'abord, perche' e' la politica che governa l'economia. Certo, la scelta di un grimaldello economico puo' oggi essere considerata miope: lo stesso Delors, che impose l'integrazione economica, ha fatto una coraggiosa autocritica. Ma, tralasciando per un momento i parametri di convergenza, gli zero virgola tre e tutte le altre cifre, io credo che l'impatto psicologico sugli europei che utilizzeranno un'unica moneta sara' enorme. Sara' il primo segno tangibile che facciamo parte di una stessa comunita': per questo penso che, se le cose non vanno per il verso giusto, sia meglio una qualche flessibilita' sui criteri di convergenza piuttosto che far slittare la data. Resta il fatto che, raggiunta bene o male un'integrazione economica, o si prosegue sulla strada dell'integrazione politica o ci si ferma. La stessa sfida dell'allargamento ai Paesi dell'Europa orientale e' un po'
come andare in bicicletta: se non si va avanti, si cade. L'impatto psicologico positivo dell'uso di una moneta unica puo' pero' essere annullato da quello negativo della disoccupazione. E' vero che se in sede europea avete analizzato dei dati, secondo i quali, qualora Francia, Italia e Germania completassero i rispettivi sforzi di convergenza per Maastricht, la percentuale dei senza lavoro salirebbe al 14% in Francia, al 13,5% in Italia e al 12% in Germania? E se si, non crede che saranno soprattutto i giovani a pagare l'Europa di Maastricht?
R. La risposta politica e' sempre la stessa: datemi un'alternativa. Se non compiamo questo sforzo, dove andranno i giovani? E' vero che nell'immediato potremmo avere una restrizione occupazionale, ma agganciando Maastricht conquistiamo anche le prospettive di grande rilancio che l'Europa della moneta unica ci offre. In alternativa ci sarebbe solo la linea Romiti, il quale torna a chiedere lo sfondamento del debito pubblico. Questa e' una strada che in Italia conosciamo molto bene, non mi pare che ci abbia portato lontano.
D. I criteri di Maastricht, pero' vanno innanzitutto rispettati. Sullo sfondo di questo nostro colloquio aleggia sempre il caso Itali, quello di un Paese cronicamente incapace di rispettare gli impegni che pure sottoscrive con tanto entusiasmo.
R. E' diventato un luogo comune: siamo il paese che professa maggiormente la religione europea e che poi la pratica meno di tutti. Sia nelle sue opportunita' che nei suoidoveri. Su questo tema e' assente il dibattito politico: di Europa non ce ne occupiamo neppure per insultarla.
D. Non abbiamo voluto rischiare neppure il referendum per la ratifica di Maastricht, ma anche se lo avessimo fatto, avremmo votato per l'Europa all'80 per cento, salvo poi rifiutare di intraprendere quelle politiche che ci avrebbero consentito di adeguarci ai parametri senza affanni. Non crede che anche la cattiva abitudine che abbiamo di bollare chiunque osi di avanzare dubbi sull'Europa contribuisca a mantenere bassa la tensione politica sull'argomento?
R. Il dramma e' proprio questo: sull'Europa in Italia, non c'e' stato ne' scontro ne' dibattito. E cio' che mi deprime moltissimo e' che per questo non riusciamo a cogliere neppure le opportunita': basti pensare a tutti quei fondi che l'Unione stanzia e che restano inutilizzati. Non c'e' dubbio: l'Italia e' un paese a vocazione europea e a pratica provinciale.
D. Ma l'Europa va avanti lo stesso, senza aspettarci. E allora con chi ce la prendiamo se finiamo per subire tutte le scelte?
R. Ovvio, con noi stessi. Ad esempio, mettere ordine ai conti pubblici sarebbe stato un nostro dovere di per se', senza bisogno di alcuna costrizione. Non lo abbiamo fatto per ragioni che conosciamo benissimo. Se adesso Maastricht ci aiuta a fare quello che comunque avremmo dovuto fare, ben venga: e' una grande opportunita' che l'Europa ci da'. Vuol dire che avere dei paletti ogni tanto serve.
D. Non si puo' certo negare che il governo Prodi abbia avvertito, seppure con colpevole e grave ritardo, la necessita' di una severa Finanziaria per tentare in extrimis l'aggancio all'Europa di Maastricht. Quello che colpisce e' la natura di questa stangata. Mentre altri Paesi, con conti pubblici molto migliori dei nostri, sono intervenuti sui centri di spesa, mettendo mano al ridimensionamento del Welfare State, Prodi si e' inventato una nuova tassa pur di non toccare pensioni e sanita'. Non e' un altro segno del ritardo con cui l'Italia si avvicina ll'Europa?
R. Io non posso entrare nel merito della manovra economica del nostro paese, perche' non mi compete. Pero' su questo punto specifico, noi italiani scontiamo anche un ritardo culturale.
D. Fa effetto leggere su l'Espresso critiche alla sinistra che considera tabu' il tema delle pensioni, mentre solo due anni fa, quando il governo Berlusconi progetto' una serie riforma del sistema, lo stesso giornale fece fuoco e fiamme.
R. Bisognerebbe fare una fotocopia degli articoli di due anni fa e mandarli al direttore de 'L'Espresso. Giusto per sapere quando e' avvenuta questa folgorazione sulla via di Damasco. Qui, pero', va introdotto un altro elemento che penalizza il nostro Paese, quello della stabilita' politica. Per incidere sul Welfare State, un governo ha bisogno di avere davanti un certo numero di anni che gli consenta di fare politiche impopolari. Gli effetti benefici di questi interventi si hanno solo nel lungo periodo, a breve ci sono solo malumori e contrasti. Per questo, esecutivi solidi possono intraprendere grandi riforme, mentre governi di transizione vivono alla giornata. Il dato istituzionale e' fondamentale. E noi abbiamo perso troppo tempo nell'adottare con chiarezza il sistema bipartitico. Mentre il bipolarismo non ha mai dato garanzie di stabilita' ad alcuno, il bipartitismo e' il sistema che meglio assicura stabilita' ad alcuno, il bipartitismo e' il sistema che meglio assicura stabilita' economica e responsabi
lita' di chigoverna.
R. Come giudicano i partners europei l'interminabile transizione italiana?
D. Certo l'instabilita' non giova. Pensi che il Commissario per i fondi strutturali, in un anno e mezzo, ha visto passare quattro ministri diversi, stipulando quattro accordi differenti.
Credo, pero', l'Europea sia stata piu' ragionevole di noi nell'attendersi una transizione lunga e complessa. C'e' un atteggiamento di wait and see, si sono fatti meno illusioni e hanno avuto ragione. In Italia abbiamo cambiato in parte la classe politica, mentre quella amministrativa e' sempre la stessa, cosi' come quella giornalistica e quella della magistratura. Evidentemente, la trasformazione di un Paese non si completa con il cambio della sola classe politica.
D. La pazienza, pero', sembra stia finendo.
R. In Europa non ci sono piu' sconti. Ritorniamo al punto di partenza: in un'Europa competitiva, bisogna avere le carte in regola per incidere nei processi in corso e l'Italia deve imparare a stare al gioco. Una nostra esclusione avrebbe effetti dirompenti.