Cari Paolo Gull e A. Barletta,se per voi la certezza del diritto è un valore, come credo, avete l'onere di dimostrare che i diritti economico-sociali sono: 1) dotati di imperatività ("enforceable"); 2) azionabili. Poiché sul piano logico non è possibile asserire ciò (e non mi diffondo ulteriormente, per non ripetere concetti già esposti in precedenti interventi), il vostro progressismo, contrapposto al mio presunto conservatorismo cinico e antipopolare, rischia di nutrirsi solo di buoni sentimenti evocati in termini puramente retorici. Voi fate coincidere il progresso con la diffusione, puramente nominale, di "diritti". E dunque, in base a questa equazione, la storia come si è svolta fino ad oggi sarebbe un percorso rettilineo di progresso, certificato dal moltiplicarsi dei "diritti", o, meglio, di norme giuridiche che ambiscono a trasformare in diritti fattispecie complesse della vita economico-sociale. Anch'io sono favorevole alla piena occupazione, ad un facile reperimento dell'abitazione, ad un servizio sanitario efficiente e via d
i seguito. Solamente, ritengo che questi obiettivi non si realizzino per decreto, o in seguito a invocazioni retoriche. Anche perché il retropensiero nascosto della tesi "diffusiva" dei diritti, è l'intervento dello Stato nella vita economica e sociale. Io sono convinto che oggi, in seguito all'evoluzione realizzatasi negli ultimi decenni nei sistemi economici, una politica liberista sia molto più progressista dell'interventismo "sociale" che le vostre tesi sembrano sottintendere. Nelle economie contemporanee, infatti, il settore privato è molto più stabile rispetto ad un secolo fa; i costi sempre più bassi dell'informazione consentono oggi alle imprese una capacità di previsione e una gestione vicine all'ottimo. Inoltre, la crescita del reddito reale, l'estensione dell'area del benessere e la diversificazione e la sofisticazione dei consumi rendono inefficace e indesiderata un'offerta di servizi inevitabilmente standardizzata (oltre che inefficiente) quale quella statale. Infine, l'avvento
del "terzo capitalismo", quello della rivoluzione tecnologica e informatica, ha travolto la semplificazione del modello sociale "fordista", facendo sorgere nuove figure professionali, che operano isolatamente, con più indipendenza, con maggiori spazi di autonomia, discrezionalità e creatività, e dunque secondo canoni diversi rispetto a quelli del vecchio mondo "taylorista". La mobilità verticale è aumentata, moltiplicando le aspirazioni individuali nel campo lavorativo e sociale. La frammentazione sociale così determinatasi ha generato un individualismo dai connotati anche positivi, tendente ad enfatizzare gli elementi di autovalorizzazione ed emancipazione, dunque non necessariamente regressivo. Il processo descritto non può non porre il mercato al centro della scena economica, in quanto unica istituzione oggi in grado di far emergere e comporre preferenze individuali ormai così diversificate, sofisticate e personalizzate.
In questo quadro, caro Paolo, non riesco a capire quale possa essere ancora oggi il valore esplicativo del termine "borghese", che, immagino, vuole richiamare la difesa di privilegi di classe, ma che a me appare una vecchia etichetta ormai inutilizzabile come strumento interpretativo dei "cleavages" dell'epoca contemporanea (e poi proprio io, dipendente pubblico da 1 600 000 lire al mese, sarei l'espressione intellettuale della classe sfruttatrice? O, marxianamente, una coscienza capovolta? Ma via!). Dunque, se permetti, ribalto l'accusa di conservatorismo su chi l'ha lanciata. Insomma, laicamente: Margaret Thatcher in campo economico è stata molto più progressista e innovatrice dei suoi antagonisti laburisti Michael Foot o Neil Kinnock , rimanendo invece a mio parere conservatrice sul piano del costume e su molti temi civili. Invito, quindi, a non ricorrere a vecchi schemi ideologici (ad esempio, la coppia destra/sinistra) per interpretare i nuovi conflitti di questi anni.
Saluti, Piero.