(Il Corriere della Sera, venerdì 20 dicembre 1996)
di Stefano Folli
Afferma Carlo Giovanardi, l'uomo della scandalo, autore dell'emendamento che voleva eliminare le conseguenze penali del finanziamento illecito ai partiti: "La verità è che tutti sono d'accordo sulla depenalizzazione, ma sono terrorizzati che venga chiamata colpo di spugna". E' probabile che Giovanardi abbia qualche ragione. Non è esatto che tutti siano d'accordo nel Parlamento (Marco Pannella ha subito alzato la bandiera del referendum), ma certo una larga maggioranza esiste a favore della nuova legge. Una maggioranza che parte dal presupposto, come afferma Bertinotti, che si deve "reintrodurre il finanziamento in forme diverse dal passato, come atto volontario dei cittadini".
Di fatto parecchi adepti di questa maggioranza trasversale, da An a Rifondazione, sono tra quelli che ieri hanno denunciato l'oltraggio al pudore politico contenuto nell'emendamento Giovanardi. Perché trovano indigesto inghiottire il boccone più amaro: appunto cancellare il reato penale e introdurre la multa in luogo del carcere. Una norma che avrebbe inevitabili effetti di sanatoria per il passato, il che significa ancora oggi sfidare l'impopolarità. Così si cerca di passare attraverso la cruna dell'ago senza dar troppo nell'occhio, magari con l'ausilio di una dose di demagogia. Ma è un'impresa piuttosto complessa anche per gli standard medi dell'ipocrisia parlamentare.
La verità è che di nuovo il Parlamento è chiamato a battersi contro se stesso, cioè contro la propria insicurezza. Lo si è già visto l'altro giorno, quando si è realizzato l'accordo sulle tv. Ogni operazione concepita con l'idea di dare stabilità al sistema genera aspre controspinte. Ora è chiaro che un'intesa sul finanziamento ai partiti costituisce di per sé un azzardo, dato il clima psicologico e sociale in cui vive il paese. Ma le forze politiche, nessuna esclusa, ne hanno un bisogno disperato. Quindi l'accordo ha buone probabilità di essere individuato, come è stato trovato quello sulle televisioni. Il punto è che una volta di più i due poli offrono lo spettacolo della loro debolezza. E ci si domanda: D'Alema e Berlusconi sono decisi a imporre la nascita della Bicamerale, ma avranno sufficiente forza, nei sei mesi successivi, per cavarne dei risultati concreti sul terreno delle riforme?
A molti sembra che il tessuto del dialogo sia troppo fragile per promettere qualcosa di buono. E in fondo anche l'attacco mosso ieri da Massimo D'Alema all'ipotesi di Assemblea Costituente è il segno che l'iniziativa di Mario Segni comincia a mordere, quanto meno mette a nudo il travaglio, ai limiti dell'impotenza, in cui si agitano i due poli. In passato il segretario del Pds non era stato così impietoso verso la prospettiva della Costituente, che oggi definisce "un rischio per la democrazia" e "una spallata plebiscitaria".
Ma oggi qualcosa è cambiato. E in particolare la convinzione che l'iniziativa di Segni ha messo un cuneo nelle ruote di un carro, quello del dialogo tra il Pds e il Polo, che già stenta a muoversi.
Come se non bastasse, ai primi di gennaio la Corte Costituzionale si pronuncerà sulla valanga dei referendum. Ed è un'altra potenziale lacerazione del rapporto destra-sinistra. In altre parole, i frutti del dialogo Polo-Ulivo (tv, finanziamento dei partiti, Bicamerale) potrebbero essere ancora troppo acerbi per sostenere la doppia pressione esterna: referendum e raccolta di firme per la Costituente.
Tanto più che D'Alema è impegnato su due fronti. Nello stesso momento deve anche costringere Bertinotti a rientrare nei ranghi, attraverso una sorta di negoziato sul programma economico. Entrambe le imprese sono di estrema difficoltà. E forse questo spiega quelle parole così esplicite sulla Quercia che vuole radicarsi al centro. D'Alema non ha esitato a ricordare Gramsci e il principio di 'egemonia'. Il che ha indispettito i Popolari, ma serve a dimostrare una volta di più che il Pds sta giocando la partita decisiva.