di Massimo Teodori
(Il Giornale, 22 dicembre 1996)
E' un ipocrita che sostiene che la politica non costa e che il Parlamento avrebbe dovuto ignorare la questione. Il finanziamento della politica è questione centrale per la democrazia politica: il modo in cui si coprono le spese per la politica rende un sistema politico più o meno democratico, più o meno aperto, più o meno autonomo. Quindi ha fatto bene il Parlamento a legiferare sul finanziamento ai partiti, se pure con una rapidità e unanimità sospette, dopo che la legge precedente era stata abrogata nel 1993 a furor di popolo referendario. Ma le nuove norme sono effettivamente nuove? Ha ragione l'onorevole D'Alema che parla di "legge democratica", l'onorevole Martino che la definisce "una scelta immorale e tirannica", o Pannella che protesta contro "il furto di Stato"? Personalmente ritengo che un problema giusto - il finanziamento della politica - sia stato risolto nella maniera sbagliata. Dopo un lungo giro si è tornati esattamente al punto di partenza della legge del 1975. Il criterio ispiratore del nuo
vo provvedimento rimane quello statalista e centralizzatore, obbligatorio e deresponsabilizzante delle volontà individuali. Per rendersene conto, basta esaminare il meccanismo apprestato. Intanto per il 1997 saranno distribuiti 160 miliardi in ragione dei voti ottenuti da ciascun partito alla quota proporzionale delle elezioni del 1996, senza alcuna differenza con quel che accadeva prima del 1993.
Poi, con l'entrata a regime nel 1998, il finanziamento sarà costituito da una parte di 110 miliardi di contributo cosiddetto "volontario" del 4 per mille attestato nella dichiarazione dei redditi, e di un'altra parte di 50 miliardi relativa alla detassazione fiscale delle erogazioni liberali.
L'inganno sta nel fatto che il danaro del 4 per mille va a finire in un calderone unico centrale statale da cui vengono riversate ai singoli partiti quote proporzionali ai rispettivi voti. Paradossalmente accadrà che i 10 milioni del miliardario Azzurro berlusconiano andranno per un 10% anche a Rifondazione e per il 20% al Pds, mentre il milione dell'operaio Rossi finirà per il 20% a Forza Italia e per il 15% a Fini, e i 5 milioni del ragioniere Lumbard finanzieranno per l'80% gli odiati partiti romani.
La verità è che la quasi unanimità dei gruppi ha scelto di confermare l'impostazione di una politica dipendente sempre e comunque dalle pubbliche risorse senza avere alcuna fiducia delle libere scelte individuali. Era possibile adottare un modello alternativo di finanziamento privato basato sul criterio che ogni cittadino si paga direttamente il partito, l'associazione, l'attività e il candidato che sceglie senza passare attraverso la mediazione burocratica pubblica, e assegnando allo Stato una funzione incentivante delle contribuzioni tramite la leva fiscale e regolatrice dei limiti delle contribuzioni. Si è voluto invece percorrere in tutto e per tutto la vecchia strada, sia ribadendo il carattere "pubblico" e non "volontario" del finanziamento, sia legando il meccanismo di distribuzione del danaro al proporzionalismo che costituisce l'inquinamento cespuglioso dell'attuale sistema politico e che comunque tra breve potrebbe sparire con il referendum pannelliano, sia ancora vincolando perennemente il singolo
deputato al partito di elezione.
Dopo il grande choc di Tangentopoli, ragione avrebbe consigliato che si affrontasse l'intera materia del costo della politica con una legge quadro che assorbisse ed eliminasse i mille rivoli che oggi rimpinguano, spesso in forme occulte, assistenziali e parassitarie, le tasche dei politici: i rimborsi elettorali (duecento miliardi distribuiti negli ultimi tre anni); le scandalose sovvenzioni miliardarie ai giornali di partito spesso fantasma (leggi 416/1981, 67/1987 e 259/1990); i cosiddetti enti inutili, per non parlare delle migliaia di miliardi distribuiti ai sindacati. V'era l'opportunità, questa volta, di risolvere una così importante questione democratica creando una discontinuità con un passato tutt'altro che limpido, ma l'occasione è andata persa. Se si fosse cambiata strada, sarebbe stato legittimato anche un intervento di depenalizzazione dei reati di finanziamento ai partiti per chiudere con il passato. Invece si è messa la testa sotto la sabbia e si è continuato a guardare alla vituperata ma semp
re imitata prima Repubblica.