Da almeno sessanta anni le varie forze e le varie correnti di pensiero ed azione di Sinistra liberale, libertaria, liberista, liberalsocialista radicalmente antiautoritarie e non solamente antifasciste o anticomuniste o anticlericali antifondamentaliste - sono state accusate di essere 'passate al nemico' se non di essere peggiori e più pericolose del nemico stesso. L'accusa di tradimento, con accenti ancor più morali che politici, ha accompagnato la vita e insidia la stessa memoria, tuttora, della Sinistra liberale, di quella libertaria, e dei democratici che scelsero nel contesto internazionale ed in quello nazionale in modo opposto alla Sinistra comunista, socialista, frontista e, successivamente, praticante unità nazionali, compromessi storici o centro-sinistra organici, o la strategia politica che ha oggi portato a prevalere la Sinistra italiana nell'attuale assetto.
Non solamente dagli ultimi due o tre anni, ma dagli ultimi venti o trent'anni, tranne brevissimi momenti, la storia politica dei Radicali prima, dei Riformatori poi, è stata ed è anatemizzata come nemica, espulsa da ogni concreto dibattito: ne è testimonianza monumentale tutta la 'letteratura' di quotidiani, riviste, libri, di dibattiti, festival, seminari della Sinistra, da 'Rinascita' alle Feste dell'Unità di oggi, a 'Micromega' o perfino 'Liberal'...>>.
Prendere o lasciare, amici di "Quaderni Radicali"! Se si prende, se si accetta questa analisi - succo della conferenza stampa tenuta da Emma Bonino, assieme a Marco Pannella e a Paolo Vigevano, ai primi di agosto - bisognerà, per coerenza, compiere certe scelte politiche; scelte, indicazioni e comportamenti potranno altrimenti essere - anzi, sicuramente saranno - diversi, lontani da quelle e persino opposti. Tra i due divaricanti percorsi non c'è, temo, spazio di mediazione. Ci proveranno la cultura, le astuzie, i cinismi, le stupidaggini, le abitudini sempre, di una classe dirigente a questo abituata, non noi: niente giochini, sulla storia di questo paese, sulla sua interpretazione e, in conseguenza, sulle vie da percorrere per mutarne, a breve o a lungo termine, il difficile corso.
Personalmente, da decenni condivido l'analisi così felicemente sintetizzata dalla Commissaria Europea. Non l'avrò formulata, per scarsa bravura e per mancanza di strumenti, con la stessa sua lapidaria chiarezza ma, nella sostanza, sui parametri da lei indicati ho regolato quel po' di attività militante che mi è stato concesso fare: non molta, sicuramente, ma spesso non me ne è stata data nemmeno la possibilità.
Purtroppo, temo che questa mia giovanile e poi incancrenita scelta sia stata un portato (in buona parte) generazionale: ho ormai la disincantata e sgomenta convinzione che i valori e i giudizi cui io ed altri coetanei conformammo i nostri comportamenti e le conseguenti azioni pubbliche e militanti siano lontani dall'Italia di oggi, dalle sue classi dirigenti, dalle sue coscienze anche illuminate. Chi volete che possa interessarsi ad una interpretazione salveminiana, rossiana, degli eventi politici della prima metà del secolo, quella che fu determinante a plasmarlo nelle sue caratteristiche? Un certo "revisionismo" ha investito il fascismo e le sue adiacenze, ma in un senso ben diverso da quello che qui interessa, anzi persino peggiorando certi sbandamenti: il grave (sopratutto perché intenzionale) equivoco di De Felice (il suo resta comunque il più serio e motivato dei revisionismi) è infatti di aver attenuato e ammorbidito la fisionomia del fenomeno fascista e dello stesso Mussolini, per riavvicinarli in qu
alche modo e il più possibile ai loro avversari storici, la democrazia e i suoi interpreti. Per De Felice, Mussolini fu un po' meno totalitario di quel gli viene rimproverato, un po' più democratico di quanto si pensi. A furia di documenti, i minuti documenti cari a questo pur grande storico, il percorso di Mussolini viene spezzettato in una serie di episodi e fatto defluire in infiniti rigagnoli, ciascuno dei quali ovviamente - in tale elaborazione e presentazione - conterrà in sé sfumature, venature, particelle che sono giustificabili da e sotto ogni latitudine culturale, etica e politica. In tal guisa, anche De Felice viene a ricompattarsi nella schiera di coloro che non accettano il nocciolo del ragionamento di Emma Bonino. Anche lui, vale a dire, appiattisce la storia italiana in un percorso tutto "buonista", smussato e niente affatto drammatico, fatto di piccole scelte intercambiabili, quale avrebbe potuto essere scritto e approvato da Torquato Accetto: come è nella tradizione italiana, quella della "h
onesta dissimulazione" che non ama i grandi dissensi etici, quella che ama esprimersi piuttosto nella commedia (dell'arte) e solo per eccezione e straordinariamente (magari proprio con il fascista Pirandello) con la tragedia, o quanto meno il dramma.
Anche nell'ambiente del partito radicale si è fatto, in tema di fascismo, un notevole revisionismo. Ma quale differenza da De Felice! Successe agli inizi degli anni '70 (prima, dunque, che le opere fondamentali dello storico arrivassero in libreria) quando Marco Pannella, rifiutandosi di aderire alla campagna appena aperta dal "Manifesto" e affini per la messa al bando del MSI, definì il fascismo (penso di ricordare abbastanza bene) un episodio "grande e terribile" della storia del secolo, prima che del nostro paese. "Grande" e "terribile", perché grande e terribile fu la comparsa, sul continente, della cultura e della conseguente spinta totalitaria e totalizzante dello Stato, delle Ideologie salvifiche, della Autonomia della Politica, e così via. Di questa "drammatica" ma "grande" vicenda, che coinvolse tutto il continente fatta eccezione di isole a cultura anglosassone, Mussolini fu a sua volta "grande", forse il più grande interprete. Il suo percorso non fu né il folkloristico e grottesco incedere del Pri
apo su cui si avventa la satira di Gadda, né lo slavato e un po' sciapo deviazionismo parademocratico cui lo relega il revisionismo/giustificazionismo di De Felice.
Mussolini espresse storicamente, insomma, l'opposizione di fondo, assolutizzante, mortale, ad una possibile scelta in senso liberale (non solamente "democratico") della storia europea. Drammatica, e collocata sullo spiovente opposto a quella - tutta liberale, invece - indicata e avviata per lampeggiamenti, conquiste e sconfitte dai Romolo Murri o dagli Ernesto Rossi, tanto per tornare a noi passando per alcuni indirizzi emblematici e cari.
Anche i più ostili a De Felice sono con lui concordi ed univoci in questo, che l'Italia non debba accogliere alcun fermento autenticamente liberale, radicale, e sopratutto libertario. Deve disfarsene, liquidarlo, magari ammazzarlo, senza scampo e il più presto possibile. E se qualche barlume di resipiscenza, o di pudore, fu presente per alcuni anni dell'immediato dopoguerra, quando si dovette pur fare un po' di spazio a Rossi o a Calogero, a Salvemini o ai Rosselli, a Terracini o allo Spinelli del "Manifesto di Ventotene" (un gran testo politico, di cui non esiste nemmeno una edizione critica e commentata e sul quale non si è mai fatto un solo corso universitario!) il pertugio si è presto richiuso. Oggi, chi volete che possa avvertire l'esigenza, per intimo disagio o per obbligo di cronaca, di fare ancora qualche conticino con quelle figure, con il loro portato storico, civile e politico?
La mutazione antropologica (quella intravista da Pasolini?) si è saldata, forse definitivamente. Il filo della memoria storica è spezzato: l'oggi è atemporalità assoluta, infinito presente che scorre immobile sui cavi telematici o di Internet, in quel villaggio globale che ha necessità assoluta di spegnere il senso della storia, di bloccare l'influsso del passato, di rinnegare il corso del tempo come costitutivo dell'evento. "E' morta a letteratura!" "E' morta la poesia!" "E' morta l'arte!" si brontola in giro. Ma no, è morto qualcosa di più che non l'arte e la letteratura: è morta la possibilità stessa di una interpretazione dell'evento che vada oltre la sua immediatezza, il suo esserci-offerto-dalla-comunicazione-di-massa, per porlo sul piano della ri-flessione. E' morta, vorrei ripetere, la Storia, il "continuum" della Storia. Viviamo in epoca di secessioni, e le secessioni si incardinano sul rifiuto globale della Storia. Di quì l'impossibilità di una re-visione, costante e inquieta quanto necessario, del
le vicende politiche del paese, re-visione che in forme eretiche (altrimenti che re-visionismo sarebbe?) ne scavi ed estrapoli i nodi, risolti o irrisolti, per tentarne lo scioglimento o comunque per inserirli, con funzioni catartiche, espressive, stimolanti, nell'attualità.
Anche nei momenti più bui degli anni cinquanta, per la mia generazione c'era la speranza e fors'anche la generosa fiducia di poter - per impercettibili, difficilissimi gradi di avvicinamento - avanzare nella direzione storicamente giusta; colloquiavamo quotidianamente con chi ci testimoniava il flusso costante e vivo di un cammino proiettato su un progetto di libertà: accanto a noi vedevamo ancoora impegnati maestri e guide, militanti, rassicuranti e generose: si poteva andare a casa di Spinelli, di Rossi e Calogero, o di altri e minori, per averne insegnamenti che davano fiducia nel domani. Di questa continuità - generazionale e di intenti - temo si sia spezzato (e in termini culturali, perfino sociologici, non solo generazionali) il filo rosso. Ecco perché credo che tra i due corni del dilemma aperto all'inizio il secondo debba fatalmente prevalere.
Non voglio ridurmi a lodatore del tempo passato. Non me ne importa un fico, di piangere il passato, nemmeno il mio. Solo, credo di dover segnalare certe cose nel momento in cui, generosamente, "Quaderni Radicali" mi chiede di un parere sull'attualità politica, sulle prospettive, e così via: per rispondere, non posso non fare delle precisazioni, non mettere dinanzi ai lavori in corso un cartello di avvertenze. Me ne corre l'obbligo, per evitare, per quanto mi è possibile, che qualcuno caschi nella buca degli equivoci, delle risposte presuntuosamente taglienti e sgarbatamente risolutive: suicide, dunque, o comunque inconcludenti. Temo, per esempio, che anche gli amici di "Quaderni Radicali" siano incorsi in questo equivoco già nel formulare i quesiti che ci propongono. Cosa dicono, infatti? Sostengono che, per rispondere al "vaniloquio" della classe dirigente di oggi e ad una informazione "minata da una vera e propria tisi dell'anima" si possa e debba mettere in moto "la valorizzazione del significato stesso d
i autonomia delle persone". Magari, soggiungendo poi che bisogna anche "rifornire gli individui degli strumenti adeguati perché si affermino i principi di una autentica cultura democratica, in grado di dar corpo alla prospettiva di un partito liberal-democratico, presidenzialista, federalista e libertario".
Volenterosamente mi sforzo di comprendere cosa voglia dire "la valorizzazione del significato stesso di autonomia delle persone". In trenta e passa anni, ho imparato che in politica certe affermazioni valgono nella strettissima misura in cui diventano fondamenta di una organizzazione politica. Solo la politica può valorizzare le persone, rendendole non "autonome" (a questa autonomia non credo) ma attive, attori responsabili di sé. Ho imparato che certe affermazioni potranno altrimenti essere esercizi culturali, modelli esistenziali, argomenti di nostalgie più o meno senili: ma non serviranno all'obiettivo di cui qui si parla, e che voi vi/ci ponete.
A mio avviso, dunque, la questione sta su due gambe. La prima, relativa al senso storico e politico dell'iniziativa: si accetta, o no, il giudizio "alternativista" che è nella dichiarazione di Emma Bonino? Se sì, la strada è segnata per una battaglia di alternativa radicale e senza equivoci, assolutamente impermeabile a concessioni ideali anche se aperta ad ogni necessario compromesso politico, di grande opposizione non solo al governo ma al regime che governa compatto "da sessanta anni"; fondata sui temi liberatori e portatori del liberalismo del 2000, e non sull'archeologia, tutta letteraria e accademica, del liberalismo storico; intransigente nella difesa della prospettiva europea-federalista, senza cedimenti autarchici e paleonazionalisti; ferrea nell'individuare i percorsi del liberismo globalistico del nostro tempo e insieme delle possibilità di governo (transnazionali, ovviamente!) che occorrerà inventare, creare, mettere in piedi e infine consolidare per gestirlo e non farsene gestire; fantasiosa, ad
dirittura, nel disegnare le nuove istituzioni di uno Stato di diritto transnazionale che esalti i diritti umani del XXI secolo, quali si sono affermati dalla fine della seconda guerra mondiale attraverso le grandi Organizzazioni della Comunità civile (prendendo ad esempio il Tribunale ad hoc per la Jugoslavia o il Tribunale Internazionale Permanente sui crimini contro l'umanità di cui l'ONU si occuperà di nuovo, speriamo positivamente, quest'autunno), ecc.
La seconda gamba sarà la messa a punto di adeguati strumenti organizzativi, di lotta politica e non di testimonianza, autonomi e non subalterni finanziariamente, dunque autogestiti e convenientemente e rigorosamente libertari. Quando parlo di strumenti organizzativi "adeguati" non intendo che debbano essere così imponenti da garantire la vittoria. Alla vittoria potranno essere inadeguati, ma adeguati dovranno essere ad esprimere, anche nelle forme, il senso della battaglia che si vuole condurre, la direzione verso cui si vuole andare: di qui la raccomandazione per una forte tensione libertaria.
Questo è il da farsi, senza alibi: mentre solo un alibi può essere, amici, l'appello al grande partito liberale, democratico, ecc. ecc., cui voi sospirate. Il perché è chiaro: non è nemmeno alle viste, ancora, quel grande blocco sociale, culturale e politico che solo potrebbe far insediare nel paese codesto partito. Lasciate stare. A fare progetti impeccabili ma formalisti, magari anche golosamente parlamentaristici ma strutturalmente superficiali se non inesistenti, l'accademia "liberal" italiana è già bravissima (nel far questo sa di essere indispensabile al regime, come copertura a buon mercato).
A queste condizioni, marciando su queste due gambe, sarà invece possibile almeno avvicinarci all'"alternativa di potere", al "blocco sociale contrapposto" che portino l'Italia alla "rivoluzione liberale". Voi mi direte: ma tu stai facendo un ritratto, un identikit chiarissimo: il ritratto di qualcosa che già c'è anche se forse sta per morire mentre combatte le sue forse ultime battaglie: la "cosa" composta dal Partito radicale transnazionale, dal Movimento dei Club, ecc. Beh, è proprio così, mi avete smascherato. Ma che male c'è? E che poteva dirvi di nuovo, che voi già non sapeste, uno che ha collaborato una vita con chi ha cercato di organizzarlo, quel partito, e sempre ha visto sfuggire per la tangente quelli con i quali si era unito all'impresa (compresi alcuni di voi)?
Roma, 8 settembre 1996