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Partito Radicale Rinascimento - 3 gennaio 1997
LA CONSULTA SIA UN POTERE NEUTRO

di Ernesto Galli della Loggia

(Il Corriere della Sera, venerdì 3 gennaio 1997)

Referendum e autonomia dalla politica

Tra pochi giorni la Corte costituzionale sarà chiamata ad adempiere ad uno dei suoi compiti istituzionali più delicati. Essa, infatti, dovrà decidere sull'ammissibilità di un certo numero di referendum popolari tra cui alcuni di evidente e forte contenuto politico, a cominciare da quello, di contenuto politico fortissimo, volto a cancellare dal nostro sistema elettorale la quota, ammontante come si sa al 25 per cento, di seggi parlamentari assegnati con il metodo proporzionale. Volto quindi, in pratica, a mutare profondamente il sistema politico e dei partiti.

Compito delicato, quello della Corte, anzi delicatissimo. Essa deve, sì, giudicare su un argomento in sostanza politico ma al tempo stesso il suo ruolo le impone di essere sorda alle ragioni della politica per seguire invece solo la lettera e in subordine lo spirito della carta costituzionale.

Se si vuol capire quanto sia difficile tale impresa bisogna pensare che, per venirne a capo, i giudici della Consulta devono riuscire, in sostanza, a prescindere dal fitto e vario tessuto di relazioni, di amicizie, di influenze di cui ognuno di loro per la propria biografia è stato e in qualche modo è ancora oggi inevitabilmente al centro. A causa della propria biografia e, aggiungo, a causa dello stesso meccanismo elettivo della carica ricoperta (uno dei tanti aspetti della nostra Costituzione che non ha funzionato come doveva e che quindi bisognerebbe cambiare), il quale meccanismo per almeno due terzi dei giudici della Corte è di stretta e insindacabile derivazione politica.

Proprio per questo, o anche per questo, è accaduto più volte in passato che a torto o a ragione - secondo chi scrive a ragione, evidentissimamente a ragione - le pronunce della Corte su varie materie, tra cui per l'appunto i referendum, siano state sospettate di obbedire non a ragioni di giustizia ma a ragioni di pura e semplice opportunità politica, a criteri di supina obbedienza o identificazione con l'interesse di questo o quell'attore politico-istituzionale.

Sarebbe dunque gravissimo, e assolutamente disdicevole per quel tanto di prestigio di cui la Corte tuttora gode, se ancora una volta i suoi membri, con la decisione che sono chiamati ad esprimere prossimamente, accreditassero i già numerosi sospetti di cui ho appena detto. Sarebbe gravissimo, si capisce, per il fatto in sé, ma sarebbe grave soprattutto per il valore di sintomo e di indicazione generale che un tale fatto assumerebbe.

Un inchino alle esigenze della politica (di questo o quello schieramento ovvero di tutti gli schieramenti) da parte della Corte costituzionale - perfino della Corte costituzionale! - vorrebbe dire che in Italia, nell'ambito di ciò che è pubblico, che a qualsiasi titolo riguarda il bene di tutti, non può esservi alcun organo, alcuna istituzione, capace di avere un carattere "altro" e per così dire neutrale rispetto alla politica. Vorrebbe dire che in Italia tutto ciò che è pubblico - dalla Rai alla Biennale di Venezia, dalle Ferrovie all'Inps, alla Corte costituzionale - tutto, anche se non ci sarebbe nessun motivo ragionevole perché le cose stiano a questo modo, deve fatalmente ricadere nella dimensione della politica e dunque, che piaccia o no, della ragione di partito.

A cominciare per l'appunto dalla giustizia, dove con questo termine non è da intendere tanto la giurisdizione in senso proprio, quanto quell'insieme di organi di controllo e di garanzia - di cui la Corte costituzionale può essere considerata una sorta di prototipo ideale - i quali in moltissimi ambiti (dall'osservanza dei codici professionali, per esempio, alla sorveglianza sulla correttezza dei membri della classe politica) potrebbero-dovrebbero essere i guardiani delle regole, i tutori di interessi collettivi importantissimi anche se non sempre - o per meglio dire quasi mai - giuridicizzabili in modo conseguente.

Una democrazia per funzionare e per mantenere il suo carattere liberale ha un bisogno estremo di organi siffatti, di una sorta cioè di "potere neutro" variamente articolato e diffuso, tanto entro la struttura dei poteri pubblici quanto in quella della società civile, le cui pronunce non siano dotate magari di alcun potere sanzionatorio formale ma si impongano semplicemente per l'indiscutibile (e indiscusso) prestigio di chi le emana. Se un potere del genere manca, allora è inevitabile non solo che il potere della politica tenda a divenire onnipresente e quasi onnipotente, ma che alla fine esisteranno solo due tipi di potere: quello sociale degli interessi costituiti (grandi corporazioni, finanza, industria) e quello per l'appunto della politica, cioè delle crude e nude maggioranze, parlamentari o elettorali che siano. L'esistenza di una rete efficace di poteri neutri è l'unica ragionevole alternativa a questo panorama in cui il potere è coronamento di se stesso, dove ha potere chi è già potente. Ma è ch

iaro che i poteri neutri possono affermarsi solo se nella mentalità del Paese, e in specie nella cultura dei suoi gruppi dirigenti, sono radicati un'abitudine all'indipendenza di giudizio, un intimo orgoglio della propria funzione, un senso forte del valore dell'autonomia.

Ecco, al di là dei referendum, il senso vero della sentenza che la Corte costituzionale si appresta a emanare. Con tale sentenza la Corte è chiamata a offrire un esempio importantissimo: dire all'Italia se essa un giorno potrà diventare una società realmente democratica e liberale ovvero se è destinata a restare quel Paese che conosciamo, dove ogni spazio è occupato e regolato dalla politica, dalle oligarchie e dall'universale disprezzo delle regole.

 
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