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Conferenza Movimento club Pannella
Partito Radicale Rinascimento - 4 gennaio 1997
REFERENDUM E CONSULTA TRA POLITICA E DIRITTO

di Gianfranco Pasquino

(Il Sole-24 Ore, sabato 4 gennaio 1997)

La Corte ha l'occasione per un'interpretazione complessiva

Tutte le Corti costituzionali, sia per la composizione, che è anche, se non tutta, di nomina politica, sia per l'esposizione alle tematiche dei tempi, sono costrette a decidere tenendo conto delle leggi e della politica. La Corte costituzionale italiana non ha fatto e non può fare eccezione ai condizionamenti politici di vario tipo, nient'affatto tutti illegittimi, in particolare quando manca una solida base d'appoggio giuridica per le sue sentenze. Questa carenza di precedenti vigorosi e uniformi caratterizza la giurisprudenza costituzionale in materia di ammissibilità o meno dei referendum abrogativi. In un pregevole libretto, 'Il giudice delle leggi', pubblicato quando lasciò la Corte costituzionale, Enzo Cheli rilevò che, "in tema di ammissibilità dei referendum abrogativi", la Corte "non si è ispirata a una visione generale dell'istituto referendario, in grado di rendere prevedibili le scelte giurisprudenziali, bensì a un pragmatismo che, a seconda delle contingenze delle materie coinvolte, ha cond

otto ad alternare, senza adeguata giustificazione, atteggiamenti restrittivi e permissivi".

Stando così le cose, è difficile prevedere quali saranno le decisioni della Corte sui 18 referendum promossi dai riformatori di Pannella e sui 12 richiesti dalle Regioni. Poiché, però, la composizione della Corte è nota, e in essa vi sono professori le cui propensioni antireferendarie sono altrettanto note (al proposito, sarebbe bello conoscere le 'dissenting opinion'), vi è chi teme, come Ernesto Galli della Loggia nell'editoriale del 'Corriere della Sera', 3 gennaio, che le posizioni politiche di quegli alti giudici prevarranno sulle considerazioni giuridiche, ovvero su altre, da lui preferite, posizioni politiche pro-referendarie.

I problemi che la Corte deve affrontare appaiono, comunque, piuttosto complicati. Dovrebbe riuscire sia a decidere, senza cadere preda delle contingenze deprecate da Cheli, sull'ammissibilità formale di ciascuno dei 30 referendum che a esprimere principi generali di fondo che consentano di fissare una linea giurisprudenziale duratura in materia di referendum abrogativi. Dovrebbe, inoltre, evitare di fondare le proprie decisioni di ammissibilità su due criteri che le sono stati spesso rimproverati: sfoltire comunque il numero dei referendum, non mettere in imbarazzo la maggioranza di Governo. In buona sostanza, la Corte ha il compito di interpretare con precisione che cosa si intenda per referendum abrogativo e quale debba esserne la funzione nell'ordinamento giuridico italiano. Il timore dei riformatori di Pannella è che la Corte dichiari l'inammissibilità dei referendum elettorali con la motivazione che, abrogando parti di una legge - nella fattispecie: il recupero proporzionale -, la loro approvazione

produrrebbe un vuoto e renderebbe impossibile l'elezione del Parlamento in caso di scioglimento anticipato (un ragionamento simile vale per la richiesta di abrogazione del sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura).

Gli attuali quesiti referendari in materia di leggi elettorali rispondono, però, ad alcuni principi di omogeneità e di comprensibilità già ritenuti indispensabili da precedenti pronunce della Corte. E', peraltro, vero che dalla loro approvazione discenderà una legge elettorale diversa, ma non un vuoto legislativo completo. Come in altri casi precedenti, a esempio la legge sulla responsabilità civile dei magistrati, il vuoto potrebbe essere colmato e un ridisegno della legge potrebbe essere effettuato dal Parlamento. In assenza di interventi legislativi e in caso di elezioni anticipate, secondo i riformatori, resterebbe in vigore la legge elettorale precedente. Naturalmente, se la Corte interpreta le esigenze riformatrici dei tempi, Galli della Loggia esercita il suo fuoco di sbarramento preventivo contro un'interpretazione contraria, dovrebbe aprire la strada non soltanto ai referendum elettorali, ma anche, a maggior ragione, ai referendum richiesti dalle Regioni. Infatti, i 12 referendum delle Regioni

vanno tutti nel senso di un alleggerimento dello Stato centrale, a cominciare dall'abolizione di due ministeri, Sanità e Industria, e del dipartimento del Turismo e dello spettacolo (già abolito, come ministero, da un referendum del 1993).

Alla luce di queste considerazioni e in assenza di adeguati precedenti giurisprudenziali condivisibili e convincenti, la Corte ha la grande occasione, senza rinunciare a essere un filtro saggio, di esprimere un'interpretazione complessiva del referendum abrogativo e di indicare quali siano i criteri specifici per l'ammissibilità delle singole richieste. Certamente, molti rimarranno scontenti e critici, ma se le motivazioni delle pronunce saranno non episodiche, ma puntuali e, al tempo stesso, organiche, la Corte darà il suo contributo specifico, all'applicabilità del referendum abrogativo, e generale, al processo di revisione delle istituzioni.

 
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