REFERENDUM SENZA REGOLE
La Consulta e la Politica
Fondo di prima pagina di Enzo Cheli
Si avvicina la data delle decisioni della Corte Costituzionale sull'ammissibilità dei referendum (18 richiesti dal Movimento di Marco Pannella e 12 da un gruppo di Regioni) ed il tono delle polemiche, come di consueto torna a salire. In una conferenza stampa tenuta nella sede del Partito Radicale Emma Bonino ha riferito alla Corte Costituzionale 'una tendenza congenita a non lasciare esprimere il voto dei cittadini', mentre Pannella ha ripreso l'antico motivo dei giudici costituzionali che in materia referendaria avrebbero fatto in passato 'strage di legalità'. Come valutare un'accusa così netta ed insistente? Forse conviene partire dai dati di fatto che ci offre la storia dei nostri referendum. La prima richiesta referendaria fu avanzata nel 1972 e riguardò la legge sul divorzio. Da allora la Corte Costituzionale ha giudicato nell'arco di un quarto di secolo, su settantaquattro richieste referendarie, dichiarandone ammissibili quaranta. Ma solo nelle ultime due tornate (quelle del 1993 e del 1995) i quesiti
proposti sono stati ben trentacinque e di questi sono stati dichiarati ammissibili ventiquattro.Ha dunque un senso parlare di una Corte pregiudizialmente ostile all'istituto referendario e alle istanze che, attraverso il referendum, emergono direttamente dal corpo elettorale? Ma, al di là dei dati statistici, i veri problemi che oggi la Corte si trova ad affrontare non sono di ordine quantitativo, bensì investono la stessa natura dell'istituto e le modalità del suo impiego che nella prassi si sono andate affermando. Il fatto è che, nel corso degli anni, il referendum abrogativo introdotto dall'art.75 della Costituzione ha cambiato natura. La Costituzione aveva previsto un referendum diretto soltanto ad eliminare leggi o parti di leggi. Ma nella prassi, attraverso l'uso accorto del 'ritaglio' delle disposizioni da abrogare, la legge sottoposta a referendum è stata in molti casi manipolata fino a rovesciarne il significato iniziale: il referendum da abrogativo si è così trasformato in propositivo di nuove no
rmazioni (questo è accaduto, ad esempio, con evidenza particolare, nei referendum elettorali del 1993). La Costituzione aveva introdotto, mediante la previsione del referendum, uno strumento correttivo ed eccezionale, pertanto, da utilizzare con parsimonia, nei confronti di norme chiaramente individuabili e di grandi questioni di principio che potessero mettere in gioco scelte di coscienza dei cittadini diverse da quelle espresse attraverso la rappresentanza parlamentare. Ma nella prassi sono nati i referendum 'a grappolo', che investono nello stesso contesto questioni tra loro diverse, grandi e piccole, che vengono attivati per una precisa e dichiarata finalità; quella di moltiplicare il loro effetto dirompente sul sistema politico. Rispetto a queste novità che sono andate emergendo nel corso degli anni la Corte si è trovata per lo più sprovvista di strumenti adeguati: con alle spalle una disciplina costituzionale in tema di limiti (espressa appunto dall'art.75) del tutto insufficiente a contenere le nuove
dimensioni assunte dal fenomeno. Da qui lo sviluppo di una giurisprudenza 'creativa' che (sulla scia della storica sentenza n.16 del 1978, redatta da Livio Paladin) ha cercato di individuare accanto ai limiti esplicitamente enunciati dal costituente (con riferimento alle leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali), alcuni limiti impliciti desumibili dal contesto costituzionale e dalla stessa natura dell'istituto referendario. Questi limiti hanno investito, in particolare, la struttura dei quesiti, che per rispettare la volontà degli elettori deve essere secondo la Corte chiaro (cioè omogeneo, completo e univoco) e non deve produrre effetti paralizzanti sul funzionamento degli organi essenziali alla vita dello Stato. Ma l'indicazione di tali limiti, per la sua elasticità, non poteva non ampliare anche i margini di discrezionalità dei giudici affidati alla Corte: margini che hanno condotto molto spesso a privilegiare una giurisprudenza
del caso per caso, che non è stata sempre lineare e che talvolta è apparsa condizionata anche dal rilievo politico delle poste in gioco. Se una critica si può dunque fare alla giurisprudenza costituzionale in tema di referendum non è tanto quella svolta dai radicali, di aver espresso un giudizio negativo verso l'istituto referendario, quanto di non aver sempre predeterminato canoni generali di comportamento tali da rendere prevedibile e certo l'esito del giudizio. Per questo, nel momento in cui la Corte si trova oggi a dover affrontare ben trenta quesiti posti sui temi più diversi e diversamente articolati, la determinazione di alcuni criteri generali in grado di garantire la certezza del diritto si avverte come esigenza sempre più necessaria. Da qui la domanda che la scienza giuridica da tempo avanza, di una riflessione che, al di là della valutazione dei singoli casi sottoposti a giudizio, si impegni anche nell'esame del rapporto tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa quale si è andato delinea
ndo, nel nostro contesto costituzionale, alle soglie del nuovo secolo. Una riflessione che ponga al centro dell'attenzione le novità (o le distorsioni?) che sono emerse nella prassi (quali i referendum manipolativi ed i referendum plurimi) e che miri ad individuare il giusto punto di equilibrio che va ricercato fra l'esigenza degli elettori ad esprimere un voto libero e consapevole. Forse, dopo tanto travaglio, la via più lineare da seguire resta ancora quella che Luigi Einaudi indicava alla Costituente, quando affermava che 'il voto referendario, per essere significativo, deve essere raccolto su una domanda chiara ed univoca,alla quale si possa rispondere con un sì o con un no".