di Vincenzo Zeno-Zencovich (*)
(Il Sole-24 Ore, mercoledì 8 gennaio 1997)
Nella sua 'lettera aperta', pubblicata sul Sole-24 Ore di ieri, Franco Abruzzo elenca le ragioni per le quali egli è contrario al referendum sulla legge istitutiva dell'Ordine dei giornalisti e ritiene, anzi, che esso sia inammissibile.
Il professor Giuseppe Morbidelli e io, per conto del Comitato promotore di quel referendum, abbiamo appena presentato alla Corte costituzionale una memoria che sostiene invece l'opposto: e cioè che non solo il referendum è ammissibile, ma anzi l'abrogazione dell'Ordine costituisce un significativo apporto alla realizzazione del principio costituzionale di libertà di manifestazione del pensiero.
A ben vedere, gli argomenti addotti da Abruzzo sono una eccellente difesa degli interessi (legittimi, per carità) di chi è 'già' giornalista e li vede messi in pericolo dall'abrogazione dell'Ordine. Ma mi permetto di dubitare che siano altrettanto validi per la difesa degli interessi della collettività.
1 - In primo luogo è il caso di osservare che l'Ordine dei giornalisti è una peculiarità tutta italiana. La stampa è libera e può prosperare in tantissimi Paesi, vicini o lontano dal nostro, senza che i giornalisti o i governanti abbiano sentito il bisogno di creare un Ordine. Possibile che solo da noi sia tutelata la "dignità professionale, civile e morale dei giornalisti professionisti"?
2 - L'Ordine dei giornalisti, come del resto tutti gli Ordini professionali, ha storicamente la funzione di tutelare gli interessi economici della categoria, esercitando un monopolio sull'esercizio di talune attività e regolamentando l'accesso a esse. Ora, se c'è un settore dove tale monopolio è particolarmente nocivo per la collettività è quello dell'informazione: il bene che ormai è diventato il più prezioso per le società moderne viene affidato in gestione esclusiva a taluni soggetti, con esclusione di altri, per il semplice fatto che abbiano superato un esame di abilitazione e siano dipendenti di un editore.
3 - Di certo la qualifica di giornalista non viene meno per il fatto dell'abrogazione dell'Ordine: come ben sanno tutti coloro che operano nel settore, si è giornalisti per quello che concretamente si fa, non per la iscrizione a un Albo. La prova più evidente è rappresentata dai cineoperatori cui è stata riconosciuta la natura informativa dell'attività svolta e, di converso, dai dipendenti Rai che, non operando in strutture giornalistiche, hanno visto negata la applicabilità del contratto collettivo. La verità è che sotto l'ampio e generoso manto dell'Ordine vivono, con privilegi proprio non giustificati, un larghissimo numero di persone che non svolgono attività informativa e dunque, a rigore, non avrebbero titolo per fregiarsi del titolo.
4 - I giornalisti qualche ragione per dolersi ce l'hanno: perché deve essere abrogato il loro Ordine e non quello degli avvocati, degli architetti o degli psicologi? Ma qui un esame di coscienza non guasterebbe. Giacché occorrerebbe, anziché rinviare a messianici "sostanziali aggiornamenti", chiedersi in che modo l'esistenza dell'Ordine dei giornalisti abbia contribuito, in questi 33 anni, a migliorare la professionalità: a giudicare da come vengono abitualmente presentate sulla maggioranza della stampa italiana le vicende politiche e giudiziarie, i risultati non sono certo incoraggianti. Se poi andiamo ad analizzare, come è stato puntualmente fatto, la giurisprudenza disciplinare degli Ordini regionali e di quello nazionale, il dubbio sulla utilità di questo potere di controllo sugli iscritti è più che giustificato. Forse è il caso di chiedersi se, dopo questa ennesima dimostrazione del fallimento della pianificazione statale, non sia preferibile affidare al mercato e alla auto-organizzazione degli int
eressati il futuro della propria professione.
5 - Mi rendo conto che essere sottoposti, come categoria professionale, a un referendum non è proprio gradevole: ma per chi quotidianamente giudica (e spesso condanna) il prossimo dalle colonne dei giornali o dai teleschermi, il giudizio popolare, che non riguarda, ovviamente, le singole persone, ma una istituzione rappresentativa, forse può servire a far comprendere cosa pensa la tanto decantata "opinione pubblica" su chi, spesso arbitrariamente, assume di esserne l'unico e autentico interprete.
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(*) Professore all'Università di Sassari e difensore del Comitato promotore del referendum sulla professione giornalistica.