di Gianni Riotta
(Il Corriere della Sera, 8 gennaio 1997)
La Corte costituzionale si accinge oggi ad esaminare 30 referendum, 18 proposti dal leader radicale Marco Pannella e 12, cosiddetti "federalisti", promossi da varie Regioni. Come da tradizione, la Corte ascolterà le ragioni referendarie e poi, intorno alla fine del mese di gennaio, deciderà su quali referendum gli italiani voteranno e quali invece sono inammissibili.
In teoria la questione è semplice. I 15 giudici costituzionali valutano il merito giuridico della proposta di referendum abrogativo, discutono e poi comunicano al paese le proprie decisioni. In pratica la questione è complicatissima. Perché i giudici vengono nominati dal presidente della Repubblica, dal Parlamento e dalla Magistratura e, nel passato, più di una loro decisione era stata targata secondo le ascendenze di partito di questa o quella toga. Accadrà anche stavolta? Speriamo di no.
Non è l'Italia il solo Paese in cui si fa politica a colpi di referendum. A parte la Svizzera, si possono ricordare gli Stati Uniti: la rivoluzione fiscale di Ronald Reagan partì in California con la "Proposition 13", primogenita delle rivolte contro le tasse. Il malumore contro l'emigrazione clandestina è finito in referendum. Le corsie preferenziali per tutelare le minoranze sui posti di lavoro sono state oggetto di referendum. Così pure la liberalizzazione della marijuana per uso terapeutico. Gli elettori sembrano indifferenti alla quantità dei quesiti e interessati piuttosto alla loro qualità.
C'è ora chi in Italia, definisce i referendum "armi per abbattere il governo". Non tocca a noi dire se è questa l'intenzione dei promotori (quando raccolsero le firme, il governo Prodi non era neppure un'ipotesi), ma nella folla dei trenta quesiti alcuni, abrogare l'Ordine dei giornalisti o ridurre il numero delle maestre in classe, per esempio, nulla hanno a che fare con Palazzo Chigi. Altri, come la condivisibile proposta di cancellare le scorie proporzionali nel sistema elettorale, potrebbero perfino rafforzare Romano Prodi, indebolendo i faziosi della sua coalizione.
C'è, invece, chi teme che i referendum più politici, quelli elettorali appunto, finiscano con il frenare le speranze riposte nella nascente commissione Bicamerale per le riforme istituzionali. Per non disturbare il manovratore parlamentare, da più parti, si incita la Consulta a potare severa il mazzo dei referendum. Non vediamo perché: se mai il pungolo del voto può rendere più autorevoli i paladini delle riforme davanti ai, troppi, colleghi riluttanti (così sostiene anche Gianfranco Pasquino sull''Unità'). Un giornalista autorevole come Eugenio Scalfari propone il silenzio, alla vigilia della scelta della Corte, per non influenzare i giudici: non siamo d'accordo, è giusto che i giornalisti dicano la propria, ognuno con il suo stile. I giudici, gente tosta come la Contri, Zagrebelsky, Neppi Modona, Onida, Vassalli, sapranno poi decidere di testa propria. C'è chi sta già a contare i voti, tanti influenzati dal presidente della Repubblica Scalfaro, tanti dai partiti, tanti dai giudici. Infine c'è chi, sopratt
utto a sinistra, teme la confusione nella grandinata di proposte.
Cosa pensare, cosa auspicare, in questa vigilia? Che la Corte costituzionale decida esclusivamente sul valore giuridico dei quesiti. Che ognuno dei referendum, fossero pure mille, venga valutato, com'è diritto dei suoi proponenti finché vigono le attuali leggi, dimenticando chi ha candidato il giudice, quale siano i vantaggi della parte politica o ideale cui si sente vicino. Che il giudice accanito cacciatore scrutini il referendum (sacrosanto) contro l'invasione dei fondi privati da parte delle doppiette, solo a termine di legge. E' probabile che questo auspicio sia considerato ingenuo dai furbissimi che popolano la nostra capitale. Gente persuasa che indipendenza delle istituzioni, separazione dei poteri, rigore della democrazia siano capitoli bellissimi di un libro dei sogni, da impataccare di macchie di sugo, nelle lottizzazioni di potere tradizionali nelle osterie romane. Pronti a esaminare la realtà "impataccata" giorno per giorno, siamo però pagati per un diverso dovere: ricordare che l'indipendenza
di giudizio è sancita dalla Costituzione che i giudici devono salvaguardare. La Costituzione stessa è "ingenua"? Forse, e per questo ci è cara.
Non c'è dubbio che trenta referendum siano "troppi". Pensi il Parlamento a rendere più rigorosa la raccolta delle firme, o legiferi nel senso voluto dai cittadini per rendere inutile il voto. Non c'è dubbio che votare sulle maestre o sull'Automobile Club sia ridondante: ma finché la legge è in vigore è diritto dei promotori servirsene. Non piace? La si cambi.
Le società di fine millennio sono organismi complessi. Governarle dal Parlamento, prezioso strumento vecchio di due secoli, è sempre più difficile. I referendum sono i colpi di acceleratore che mettono al passo con l'umore dei cittadini: qualche volta fan guadagnare terreno, altre volte finiscono in una sbandata. Divorzio 1974, soldi ai partiti 1978, aborto 1981, scala mobile 1985, nucleare 1987, referendum Segni del 1993, e referenda tv del 1995: sono le date del percorso tormentato di vent'anni italiani. Se il Parlamento ritiene troppo permissive le regole di accesso a un referendum le renda più severe. Se l'ondata referendaria si vuole ostacolare politicamente, si legiferi con maggiore agilità. Ma finché le leggi della Repubblica son queste, nessuno, neppure chi pensa che la grandinata dei referenda sia francamente eccessiva, può negare a Marco Pannella il diritto di essere Marco Pannella.