ECCELLENTISSIMA
CORTE COSTITUZIONALE
MEMORIA
per i signori Rita Bernardini, Raffaella Fiori, Mauro Sabatano, promotori e presentatori dei referendum per l'abrogazione di alcuni articoli del D.P.R. 30 marzo 1957, n. 261, e successive modifiche, testo unico delle leggi per l'elezione della Camera dei deputati, e del d.Lgs. 20 dicembre 1993, n. 533, testo unico delle leggi per l'elezione del Senato della Repubblica, dichiarati legittimi con ordinanza dell'Ufficio centrale per il referendum dell'11-13 dicembre 1996, rappresentati e difesi, come da delega in calce al presente atto, dagli avv.ti prof. Beniamino Caravita di Toritto e prof. Giovanni Motzo, e presso il loro studio elettivamente domiciliati, in Roma, via Torquato Taramelli 22.
***
1. Della reiterazione dell'iniziativa referendaria in materia elettorale.
Per la quarta volta in sei anni torna all'attenzione di codesta Ecc.ma Corte costituzionale la questione dell'ammissibilità dei referendum sulle legge elettorali politiche. Si è sempre trattato, com'è ben noto agli Ecc.mi componenti di codesta Suprema Corte, di referendum che ponevano e pongono sul tappeto due questioni di grandissima rilevanza costituzionale: in che misura il popolo, attraverso gli strumenti posti a disposizione dalla Costituzione vigente, può e deve partecipare ai processi di riforma dell'assetto costituzionale; se, in che misura, con quali modalità, era necessario, prima, iniziare e, oggi, completare, un processo che porti la democrazia italiana nel novero delle grandi democrazie compiute, sostanzialmente maggioritarie, "decidenti", come si è detto, in cui gruppi politici egualmente legittimati competano - secondo metodi e procedure democratiche - per la conquista del potere e il governo del paese, pronti ad abbandonare l'uno e l'altro quando il consenso dalla maggioranza dei cittadini si
sarà spostato sui competitori.
Il fatto che la medesima questione torni, per la quarta volta, dinanzi alla Corte - dopo avere, ogni volta, raccolto sui quesiti ben più delle cinquecentomila firme necessarie e superati gli ostacoli politici, burocratici, ma, se si vuole, anche psicologici, che possono inevitabilmente colpire una iniziativa più volte reiterata - dimostra, da un lato, che la questione dell'assetto istituzionale del Paese è ben lungi dall'essere risolta; dall'altro, una pervicace volontà di importanti gruppi di cittadini di farsi valere, di contarsi, di essere presenti, di potersi esprimere, di poter indirizzare ed accompagnare il processo di riforma e, soprattutto, di vederlo giungere in porto.
Checché se ne dica, banalizzando l'attività di raccolta delle firme, seicentomila firme non sono una quantità né irrisoria, né insignificante, né disprezzabile: esse significano che circa un elettore su ottanta ha ritenuto di dover chiedere, per la quarta volta, di modificare in senso maggioritario uninominale le leggi elettorali. Del resto, la banalizzazione ha un suo limite: la frazione del corpo elettorale chiamata a promuovere le procedure referendarie è identificata in Costituzione e gode dunque del rispetto dovuto a questa, così come alle altre previsioni costituzionali.
***
2. Delle precedenti iniziative referendarie, delle decisioni della Corte costituzionale e delle loro conseguenze istituzionali.
La Corte costituzionale - garante del testo, come dello spirito della Costituzione; garante della Carta entrata in vigore il 1· gennaio 1948, così come della inalterata continuità dell'assetto costituzionale, anche nel suo profilo "materiale"; garante, altresì, degli equilibri di fondo dell'assetto istituzionale, così come della sua equilibrata evoluzione - è ben consapevole del perché la questione del referendum sulle leggi elettorali si è affacciata ben quattro volte nell'arco di sei anni ed è in grado, soprattutto, di valutare gli accadimenti che sono seguiti, subito dopo ed in conseguenza delle proprie decisioni.
Quale che possa essere il giudizio che in sede storica o di cronaca costituzionale si è dato e si darà degli anni che vanno dal 1946 al 1990 e della funzione che in quegli anni aveva svolto, in Italia, la legge elettorale proporzionale e quale ancora si debba ritenere il suo rapporto - sostanziale - con la Costituzione vigente, per lungo tratto disapplicata o inattuata in alcune delle sue connotazioni essenziali, fatto sta che, alla fine degli anni '80, ha preso sempre più piede nel nostro Paese un movimento - non solo di opinione, ma avente le caratteristiche di un vero movimento popolare - mirante al superamento della legge elettorale proporzionale, inteso come chiave di volta per l'adeguamento della nostra democrazia ai modelli delle grandi democrazie maggioritarie e dell'alternanza, quelle democrazie che apparivano e appaiono tuttora ai nostri occhi come democrazie compiute.
E' ormai accertata la cronica incapacità decisionale del sistema politico italiano: si tratta di una incapacità che ha fatto parlare di un "paradosso" delle riforme, per cui la decisione sulle riforme diviene anche nel gergo la decisione politica "forte", che dovrebbe essere assunta da un soggetto politico, il quale è però così "debole" che non riesce nemmeno a governare la situazione esistente, né ad avviare e portare a compimento anche solo parziali processi di riforma istituzionale; è ancora di questi giorni la ripresa di un dibattito, marcato da gravi indecisioni, sulla sorte della Commissione Bicamerale. La sola strada praticabile, già agli inizi degli anni '90, è apparsa così quella del referendum, come strumento che coniuga la trasversalità rispetto alle forze politiche con la possibilità di coinvolgimento del popolo nei processi decisionali.
Fa parte della memoria collettiva della Corte costituzionale e di quella personale di ognuno di noi - come giudici, come avvocati, come cittadini - il ricordo della vicenda della prima tornata di referendum elettorali: nel 1991 la Corte dichiarò l'inammissibilità dei referendum sulla legge elettorale del Senato e di quello sulla legge elettorale degli enti locali, dichiarando ammissibile solo il referendum sulla preferenza unica nella legge elettorale della Camera (sent. n. 47 del 1991).
Nonostante i pressanti inviti all'astensione, il referendum sulla preferenza unica si tenne ed ebbe un risultato largamente positivo, conducendo all'abrogazione della possibilità di attribuire più preferenze nell'elezione della Camera dei deputati.
Sembrava un elemento di poco conto ed, invece (come testimoniano ricerche politologiche di quegli anni), quel primo "smottamento", collegato ad altre circostanze (la mancata tenuta dei partiti del pentapartito nelle elezioni del 1992; le dimissioni anticipate del Presidente della Repubblica Cossiga; l'emersione della Lega; l'apertura e il rapido procedere delle inchieste da tutti conosciute come "Tangentopoli"; l'inasprirsi dell'attacco della mafia alle istituzioni), aprì le porte ad una fase - che stiamo ancora vivendo - di rapidissimi e tumultuosi mutamenti.
Il sistema politico rappresentativo non seppe, in verità, rispondere: i balbettii di una Commissione Bicamerale (1992-1993) furono cancellati dal tuono di un gruppo di referendum, tra cui - per la seconda volta - quello sulla legge elettorale del Senato, allora (con la sent. n. 32 del 1993) dichiarato ammissibile e votato con un larghissimo risultato favorevole nell'aprile 1993.
La risposta del Parlamento fu, di conseguenza ancora una volta, insoddisfacente: vennero prodotte due leggi elettorali (da scriversi "sotto dettatura" del voto popolare, disse allora il Presidente della Repubblica) che distorcevano e tradivano il voto referendario; e, mentre il voto popolare, con l'abrogazione delle disposizioni che prevedevano che i seggi del Senato fossero attribuiti con la maggioranza del 65% dei voti, aveva chiaramente indicato la strada di un sistema elettorale maggioritario uninominale, nella convinzione - giusta o errata - che in tal modo si potessero risolvere i problemi, insieme, della stabilità e dell'alternanza della nostra democrazia, le leggi elettorali della Camera (il cd. "Mattarellum", come si chiamò nel gergo giornalistico) e del Senato riprodussero quella combinazione del 75% di maggioritario e del 25 % di proporzionale che era il risultato - in qualche modo casuale, in qualche modo indotto dalla giurisprudenza della Corte (v. infra punto 5) - del referendum abrogativo.
Con il ché si posero, sin da allora, le basi sia della instabilità che ha accompagnato questi anni a noi più vicini (se è vero che dal 1991 al 1997 il referendum elettorale è stato proposto quattro volte, è anche vero che dal 1992 al 1996 si sono svolte 3 consultazioni politiche e si sono susseguite sei diverse formazioni governative!); sia dello stravolgimento del primo referendum e della conseguente reiterazione dell'istanza referendaria.
Proprio dall'insoddisfazione provocata dalle nuove leggi elettorali del 1993 nasce così l'idea di portare a compimento il processo di riforma in senso maggioritario della legge elettorale e, per il suo tramite, dell'intero assetto istituzionale, abrogando - così richiesto da più parti anche negli ultimi giorni - la quota residua di sistema elettorale proporzionale nelle leggi elettorali della Camera e del Senato.
Ma nel 1995, al terzo tentativo, codesta Corte costituzionale ritenne di dover dichiarare ancora l'inammissibilità dei due referendum.
Vale la pena ricordare che proprio in quei giorni cadeva il Governo Berlusconi e si andava verso la formazione del Governo Dini, cui fu predisposta, tra le incombenze di programma tecnico minimale, quella di una nuova legge elettorale regionale. La fiducia fu concessa (così come prima era avvenuto per il Governo Ciampi) al Gabinetto Dini, scontando, da parte delle forze politiche, la necessità che non fosse possibile al Parlamento il rifiuto di dar seguito, anche a livello elettorale politico regionale, ai risultati del referendum del 1993.
Occorreva varare tale legge in tempi assai brevi, per evitare la proroga dei Consigli regionali; ma, nello stesso tempo, il sistema dei partiti in Assemblea riteneva di non poter (ancora?) allontanarsi dall'arrangiata soluzione escogitata per l'attuazione di tale referendum. Ne è risultato uno discutibile compromesso effettivo (chiamato giornalisticamente il "Tatarellum"), in forza del quale il Presidente della Regione viene eletto, eludendo la Costituzione, in modo sostanzialmente diretto, mentre l'elezione del Consiglio avviene per l'ottanta per cento su base proporzionale, condita da una quota del 20% dei seggi attribuiti in modo maggioritario allo schieramento vincente. L'elusione in questa occasione del principio maggioritario farebbe peraltro ritenere che si sia verificato, tra le forze politiche legalmente agenti, un compromesso fittizio di natura meramente posticipatoria e dilatoria.
Insomma, non appena la Corte costituzionale bocciò il referendum, il sistema si è conformato; smise di muoversi verso l'obiettivo di un modello maggioritario; ma non trovò, e non avrebbe potuto trovare, la coesione per tornare indietro, utilizzando per le elezioni regionali la vecchia legge elettorale proporzionale; rimase in mezzo al guado di una transizione incompiuta tra un modello maggioritario e un modello proporzionale.
E' necessario quindi almeno domandarsi quale sia il rango reale - sul piano, questa volta sì, della Costituzione in senso materiale, e cioè dei reali rapporti di forza tra le parti politiche agenti nel sistema - delle leggi elettorali. Senza rispolverare classiche dottrine che le etichettavano come le leggi "politiche" per eccellenza, non sembra possibile revocare in dubbio - per quel che in questo momento occorre - almeno la constatazione che le discipline elettorali, soprattutto nei loro risvolti applicativi, condizionano in generale i fenomeni di modifica e di revisione della Costituzione.
Ci si limita a rammentare come episodio più recente, significativo di una linea di tendenza costante - confortata, del resto, da questa Corte nella sentenza 11 gennaio 1995, n. 5 mediante la statuizione dell'insormontabilità dell'inerzia del legislatore con conseguente intangibilità delle regole operative del sistema elettorale vigente - la vicenda del dibattito parlamentare circa la revisione costituzionale che doveva essere assunta a premessa della disciplina del voto degli italiani all'estero. Il testo unificato delle proposte di legge costituzionale portanti modifiche agli articoli 48, 56 e 57 della Costituzione (Atti Camera n. 469-2840-2880-2888A) per consentire il voto degli italiani all'estero si è arenato nella XII Legislatura sul problema della istituzione delle circoscrizioni elettorali "estere" per la Camera ed il Senato e della conseguente ridefinizione delle circoscrizioni elettorali esistenti ed in particolare sulle modalità del rinvio a discipline da adottare in merito mediante legge ordinaria
.
***
Il guado in cui ci troviamo è, in verità, sempre più periglioso; la sponda del maggioritario appare sempre più lontana; in una illusione ottica - che è però solo l'illusione di una parte del Palazzo, invero assai lontana dal Paese - la sponda del proporzionale e l'approdo sicuro della democrazia consociativa sembra essere tornato più vicino. Tanto che, nella speranza dell'impunità, il Parlamento ha potuto varare una legge che tradisce contemporaneamente i risultati di due referendum del 1993: quello con cui si era abrogato il finanziamento pubblico dei partiti; e quello con cui si era negata cittadinanza al sistema elettorale proporzionale. Una volta ritenuto legittimo il sistema proporzionale per distribuire i finanziamenti della politica, sarà poi difficile negare che esso debba diventare o ridiventare il criterio principe della vita politica, non solo così nella distribuzione dei soldi, ma anche nella distribuzione dei seggi!
***
3. Delle conseguenze istituzionali di una nuova bocciatura dei referendum elettorali.
Non sembri inopportuno accennare in questa sede a quelle che potrebbero essere le conseguenze di una ennesima bocciatura dei referendum elettorali. Non sembri di voler così chiedere alla Corte costituzionale di compiere valutazioni che non le competono: la Corte - come si diceva prima - è garante del testo, ma anche della continuità e della innovazione "conforme" dell'assetto istituzionale.
Dobbiamo allora chiederci: è il sistema politico italiano capace di trovare entro sé stesso le forze e le capacità di procedere a quella coraggiosa opera di rinnovamento istituzionale che viene concordemente richiesta? E' capace una politica che a tutti sembra debole di prendere una decisione "forte", come quella delle riforme? E, soprattutto, come reagirebbero, non già taluni esponenti politici, magari legati alla derivazione proporzionalistica (e non son pochi), che potrebbero anche risultarne - miopemente - soddisfatti, ma l'intero sistema politico italiano ad una decisione della Corte costituzionale che, andando in controtendenza rispetto agli unanimi auspici riformistici, bloccasse i due referendum elettorali?
Così come dopo la decisione di inammissibilità del 1995, il sistema politico italiano non seppe produrre nulla di meglio del "Tatarellum", molto probabilmente una nuova decisione di inammissibilità darebbe il definitivo colpo di freno ad ogni apertura riformistica: e nell'impasse, il sistema politico si baloccherebbe nella scelta tra i due sistemi autofertilizzanti "Mattarellum" e "Tatarellum"!
La stessa approvazione delle modifiche costituzionali per il voto degli italiani all'estero, autorevolmente auspicata dal Presidente della Repubblica nel suo messaggio di fine anno, si impantanerebbe negli stessi problemi di individuazione e definizione dei collegi, su cui - come si è detto - si arenò già nella XII Legislatura.
Certo, è ormai difficile immaginare che procedure esclusivamente parlamentari, siano esse quelle ex art. 138 Cost., ovvero quelle basate sull'istituzione di una Commissione Bicamerale (la discussione, in seconda lettura, della legge costituzionale istitutiva inizierà al Senato il 15 gennaio p.v.), possano sortire qualche successo: ci vuole una grande fiducia nella compattezza della coalizione di maggioranza, nell'atteggiamento collaborativo dell'opposizione, nell'assenza di sopravvenienze sociali, istituzionali, economiche, giudiziarie che eccitino gli animi in un senso o in altro; ci vuole una grande fiducia nella razionalità dei processi politici, fiducia che ci pare difficile condividere.
Ma, allora, delle due l'una.
O si ritiene che questo nostro Paese non abbia bisogno di serie e urgenti riforme istituzionali, non richieda cioè - almeno - la messa a punto di rinnovati strumenti e procedure di governo: e, allora, negli ultimi 15 anni abbiamo sbagliato tutti e, oggi, emergenze come quella appena scampata - ma non sappiamo ancora se in modo costituzionalmente legittimo - di oltre 90 decreti legge pendenti sono problemi non veri.
Ovvero, continuano ad occorrere riforme della forma di governo e della forma di stato: e, allora, nessuna occasione che possa stimolare queste riforme deve essere persa.
Non deve essere persa, soprattutto, la grande spinta che darebbero i referendum elettorali. Senza di essi - è inutile negarlo! - i processi di riforma già iniziati si impantanerebbero nel gioco dei veti incrociati delle diverse lobbies, dei diversi potentati, dei potenti gruppi di interesse che cavalcano nella politica italiana. Senza di essi, senza la grande spinta di una partecipazione popolare, quel processo di riforma che stiamo lentamente e faticosamente trascinando dagli inizi degli anni '90 si fermerebbe ancora una volta in mezzo al guado.
I referendum, pur se fastidiosamente tanti o forse troppi, pur se usati in modo che qualcuno può ritenere non condivisibile, costituiscono uno strumento posto all'interno della Costituzione vigente; se invece ci fermiano in mezzo al guado, la strada sarebbe aperta ad ogni soluzione, comprese quelle ai margini o addirittura al di fuori della legalità costituzionale.
***
Non si dica che di queste prospettive la Corte costituzionale non si deve occupare: è - o no - la Corte il garante dell'equilibrato sviluppo dell'ordinamento costituzionale? E' - o no - la Corte il supremo custode della legalità costituzionale repubblicana? E' - o no - la Corte - "isola della ragione nel mare delle passioni" - il soggetto - che non per immediati interessi politici - è in grado di cogliere, di anticipare, di favorire - anche meglio dei soggetti politici stricto sensu - le linee di evoluzione dell'ordinamento costituzionale?
Se tutto ciò è vero, come negare che la Corte possa e debba confrontarsi su questi temi? E se questo confronto è giusto che avvenga, perché tenerlo nascosto e non portarlo alla luce del sole, perché non permettere che questa riflessione avvenga davanti all'opinione pubblica?
***
4. Circa l'omogeneità dei quesiti in materia elettorale.
La Corte costituzionale ha già ritenuto (sent. 5 del 1995) che i quesiti relativi alla legge elettorale della Camera e del Senato (quelli attuali sono infatti la riproposizione di quelli presentati nel 1994 e giudicati con la sentenza richiamata) siano "dotat[i] delle necessarie qualità della chiarezza, univocità ed omogeneità" (punto 2.3. e punto 3.1. della sentenza citata).
Secondo quella decisione "l'insieme delle norme (nonché delle frasi o parole prive di significato normativo autonomo) di cui si chiede l'abrogazione risulta chiaramente rispondente ad una matrice razionalmente unitaria, ispirato, cioè, da un principio comune, la cui permanenza od eliminazione viene rimessa al voto del corpo elettorale. Attraverso una attenta opera di 'ritaglio' del testo normativo si intende, infatti, scorporare dalla legge in esame ... tutto il complesso delle disposizioni che disciplinano (o che comunque richiamano) il sistema di attribuzione di un quarto dei seggi con il metodo proporzionale, con la finalità, anch'essa intrinseca all'atto abrogativo proposto, e che costituisce un epilogo evidente della abrogazione, di ottenere un sistema totalmente maggioritario uninominale. Ne deriva, in conclusione, che il quesito referendario risulta indubbiamente fornito dei requisiti idonei ad assicurare agli elettori l'espressione di un voto consapevole".
***
5. Circa il limite della non immediata applicabilità della normativa residua.
Si osservò in quella occasione - traendone la conclusione dell'inammissibilità dei due referendum - che la disciplina risultante dall'eventuale esito positivo del referendum non era "immediatamente applicabile, in guisa da garantire, pur nell'eventualità dell'inerzia legislativa, la costante operatività dell'organo" (così la sentenza n. 5 del 1995, richiamando la sent. n. 32 del 1993). E ciò in ragione del fatto che dal ritaglio referendario residuavano, così come residuano, un numero di collegi inferiore al numero costituzionalmente previsto (475 su 630 per la Camera dei Deputati; 232 su 315 per il Senato della Repubblica), cosicché si sarebbe dovuto - così come si dovrebbe oggi - provvedere, quanto meno, alla riformulazione dei collegi, in modo da renderne il numero pari a quello dei seggi costituzionalmente fissato (ridotto, in verità, di quelli spettanti al voto degli italiani all'estero, disciplina la cui approvazione condurrebbe comunque ad una ridefinizione dei collegi).
Si tratta - com'è noto - di una posizione che risale alla sentenza n. 29 del 1987 della Corte costituzionale, ormai - almeno apparentemente - consolidata, attraverso un numeroso gruppo di sentenze successive (47/1991; 32/1993; 33/1993; 5/1995; 10/1995).
Eppure, si annida in questa giurisprudenza un equivoco su cui è opportuno soffermarsi.
Affermò la sentenza n. 29 del 1987: "Gli organi costituzionali o di rilevanza costituzionale non possono essere esposti alla eventualità, anche soltanto teorica, di paralisi di funzionamento. Per tale suprema esigenza di salvaguardia di costante operatività, l'organo, a composizione elettiva formalmente richiesta dalla Costituzione, una volta costituito, non può essere privato, neppure temporaneamente, del complesso delle norme elettorali contenute nella propria legge di attuazione. Tali norme elettorali potranno essere abrogate nel loro insieme esclusivamente per sostituzione con una nuova disciplina, compito che solo il legislatore rappresentativo è in grado di assolvere."
Si è da quella sentenza formato un filone di giurisprudenza paradossalmente contraddittorio con la costituzionalmente proclamata natura abrogativa del referendum, di cui all'art. 75 Cost.
Infatti, mentre una giurisprudenza costituzionale costante (ed una altrettanto costante prassi referendaria) ritengono generalmente utilizzabile, nell'esercizio del diritto di cui all'art. 75 Cost., sia la tecnica dell'abrogazione di intere leggi, articoli o commi (quella che viene definita come "abrogazione secca"), sia la tecnica dell' abrogazione manipolativa, per cui - attraverso l'accorta espunzione di singole parole - si muta significato ad un testo (basti pensare all'abrogazione dell'avverbio "non"!), in materia elettorale - e solo in materia elettorale! - la giurisprudenza della Corte costituzionale ha escluso la possibilità di ricorrere all'abrogazione "secca", imponendo abrogazioni manipolative ed autoapplicative.
Insomma, il referendum in materia elettorale è possibile solo a condizione che (oltre al tradizionale requisito dell'omogeneità e della chiarezza del quesito) "ne risulti una coerente normativa residua, immediatamente applicabile, in guisa da garantire, pur nell'eventualità di inerzia legislativa, la costante operatività dell'organo".
***
6. Circa il paradosso insito nella richiesta di una normativa residua immediatamente applicabile e la conseguente inversione del rapporto tra legislatore popolare e legislatore rappresentativo.
Fu questa la posizione esplicitata nella sentenza n. 47 del 1991 e ripresa nelle successive sentenze n. 32 e n. 33 del 1993, per poi essere confermata dalle due decisioni del 1995 (nn. 5 e 10).
Il paradosso di questa giurisprudenza consiste in ciò che essa eleva a principio e a canone prescrittivo e interpretativo una tecnica referendaria che dovrebbe - se del caso - essere eccezionale, quella manipolativa. Diviene dunque necessario, obbligatorio includere nel quesito anche "singole parole o singole frasi della legge prive di autonomo significato normativo": e ciò al fine di ottenere una normativa residua autoapplicativa.
Il carattere abrogativo del referendum previsto nel nostro ordinamento costituiva però una garanzia di un corretto rapporto tra legislatore popolare e legislatore rappresentativo: ogniqualvolta il popolo, per via referendaria, avesse disvoluto alcunché, eliminando dall'ordinamento una disciplina, avrebbe dovuto essere poi il legislatore rappresentativo a costruire - se necessario - una nuova disciplina applicabile alla fattispecie. Questo schema binario non doveva avere, nella logica del Costituente, alcuna eccezione, se non quelle dell'art. 75, comma 2.
La giurisprudenza della Corte costituzionale in tema di referendum elettorali conduce invece al risultato opposto: in ragione del pur apprezzabile obiettivo di salvaguardare "la costante operatività dell'organo", si nega, in verità, il dispiegarsi della potestà legislativa parlamentare.
Già così è successo nel 1993; e, non a caso, le due leggi elettorali per la Camera e per il Senato sono risultate "leggi-fotocopia" del risultato del referendum: il legislatore parlamentare, infatti, secondo quanto gli aveva "permesso" la sent. n. 32 del 1993, ha corretto, integrato, modificato la disciplina residua, ma non ha avuto la forza o il coraggio di distaccarsi dall'esito "letterale" del referendum nemmeno per quanto riguarda la "casuale" proporzione del 75% dei seggi attribuiti con il sistema maggioritario e del 25% attribuiti con il sistema proporzionale!
Secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, non potrebbe d'altra parte darsi altra evenienza: il quesito referendario deve produrre una normativa autosufficiente e autoapplicativa, che potrà - al massimo - essere "corretta". Cosicché se la fantasia di qualche promotore escogiterà qualche altro meccanismo di ritaglio o riuscirà a far approvare una qualche leggina per rendere aggredibile dal quesito referendario il testo della legge elettorale, quel risultato - sanzionato dal voto popolare - si imporrà anche al legislatore rappresentativo, che, al più, "potrà correggere, modificare o integrare la disciplina residua".
E' difficile negare che questo modello - a cui si è giunti forse in maniera non del tutto avvertita - è ormai lontanissimo dal modello costituzionale!
Occorre invece ribadire che un corretto rapporto tra legislatore popolare e legislatore rappresentativo impone - e ciò proprio in una materia delicata quale quella elettorale - un rapporto inverso a quello che emerge dalla dottrina della Corte costituzionale: al referendum spetta la pars destruens, mentre al legislatore rappresentativo spetta la pars construens della legislazione elettorale.
Chiedere che la normativa residua, dopo il ritaglio referendario, sia immediatamente applicabile e assicuri la costante operatività dell'organo; permettere al legislatore solo di "correggere, modificare o integrare la disciplina residua" significa spogliare il Parlamento della sua prerogativa più gelosa: quella di poter decidere sulla legge elettorale, di poter effettuare il delicato bilanciamento degli interessi naturalmente sotteso ad ogni legge elettorale.
In verità, il referendum - in materia elettorale, così come nelle altre materie non sottratte dall'art. 75, comma 2, Cost. - deve sì incorporare "l'evidenza del fine intrinseco all'atto abrogativo", giacché "dinanzi ad una norma elettorale la pura e semplice proposta di cancellazione, insuscettibile di indicazioni desumibili da meri riferimenti al sistema, non è di per sé teleologicamente significativa" (sent. n. 29 del 1987).
Ma, una volta che la ratio sia evidente - e nel caso di specie lo è -, spetta poi al legislatore rappresentativo trarre le conseguenze dell'abrogazione, parziale o totale, della legge elettorale: nel rispetto della ratio dell'abrogazione, ma non delle singole parole casualmente residuate dal ritaglio referendario.
D'altra parte, proprio dall'aver ammesso - e, in materia elettorale, imposto - la tecnica manipolativa deriva uno dei più gravi equivoci circa il limite creato dal risultato abrogativo: la garanzia costituzionale che circonda l'esito referendario vale infatti per quanto riguarda l'eliminazione di una certa normativa e attiene al divieto di riproposizione della medesima (sotto il profilo sostanziale) normativa. Tuttavia, nel momento in cui si impone una tecnica manipolativa, si crea anche l'illusione ottica che il vincolo, assumendo un indirizzo positivo, riguardi anche il concreto - e spesso casuale - risultato normativo residuo: ed è così che si è giunti alle leggi elettorali del Senato e della Camera che non sono riuscite a distaccarsi dalla previsione - di cui si chiede oggi l'abrogazione - del 25% dei seggi distribuiti proporzionalmente.
***
Si potrebbe quasi dire che oggi non si richiede alla Corte costituzionale solo l'ammissibilità dei due referendum sulle legge elettorali della Camera e del Senato, bensì anche di svincolare l'ordinamento costituzionale da quei nefasti - giacché operativamente insoddisfacenti - risultati delle leggi elettorali di Camera e Senato: ma ciò sarà possibile solo se la Corte muterà la propria richiesta che dai quesiti referendari in materia elettorale risulti "una coerente normativa residua, immediatamente applicabile", facendo dissolvere così quell'illusione ottica che ha condotto il sistema politico a ritenere vincolante non solo l'abrogazione, ma anche la "normativa residua".
***
Rimane il problema della "costante operatività dell'organo". Ma non pare costituzionalmente congruo caricare sulle sole spalle dei promotori tale esigenza: si tratta - come vedremo - di una responsabilità condivisa da tutti gli organi e poteri costituzionali, secondo le regole di responsabilità loro proprie.
***
7. Circa il carattere sostanzialmente e formalmente abrogativo dei quesiti in materia elettorale.
Prima di passare ad esaminare il problema da ultimo individuato, è opportuno sottolineare come ambedue i referendum sulle leggi elettorali del Senato e della Camera siano solo apparentemente manipolativi. Ambedue i quesiti, infatti, hanno un carattere sostanzialmente abrogativo "secco", giacché colpiscono parti delle leggi elettorali (quelle parti che prevedono l'attribuzione del 25% dei seggi con metodo proporzionale) dotate di autonomo significato normativo.
Nel quesito relativo al D.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, recante il testo unico delle legge per l'elezione della Camera dei deputati, le abrogazioni sostanzialmente significative sono date dal quarto comma dell'art. 1 ("In ogni circoscrizione, il venticinque per cento del totale dei seggi è attribuito in ragione proporzionale mediante riparto tra liste concorrenti a norma degli articoli 77, 83 e 84"), da frasi di significato compiuto all'interno dell'art. 18, dall'art. 18-bis, dai numeri 2) e 3) del comma 1 dell'art. 77, dall'art. 83, dal comma 1 dell'art. 84, dall'art. 85.
E' cioè colpito "tutto il complesso delle disposizioni che disciplinano ... il sistema di attribuzione di un quarto dei seggi con metodo proporzionale"; ed è attraverso questi ritagli che emerge la ratio dell'operazione referendaria, quella cioè di far espandere il criterio maggioritario di attribuzione dei seggi.
Tutte le altre operazioni di ritaglio riguardano - come già notò la Corte nella sentenza n. 5 del 1995 - disposizioni che (non già disciplinano, bensì) "richiamano" il sistema di attribuzione di un quarto dei seggi con metodo proporzionale: insomma, tutte le volte che, già nel 1995 e poi ancora nel quesito attuale, si è andato a cercare nel testo del D.P.R. tutte le volte che sono richiamate parole o spezzoni di frasi relative alla distribuzione proporzionale dei seggi, si è svolta un'attività che ben avrebbe potuto essere svolta successivamente (ad esempio, attraverso una delega al coordinamento).
Altrettanto vale per il quesito relativo al testo unico delle leggi per l'elezione del Senato (d.lgs. 20 dicembre 1993, n. 533), quesito che ha carattere sostanzialmente e formalmente abrogativo. Se, infatti, sul versante sostanziale valgono le stesse considerazioni già svolte relativamente al quesito Camera, il quesito Senato appare non manipolativo anche sul piano formale. Sono infatti colpiti sempre e solo articoli, commi, periodi dotati di una propria autonomia logico-grammaticale. Le uniche eccezioni a questo modello sono date dal ritaglio effettuato al comma 2 dell'art. 1. Si osservi però che:
- l'eccettuazione del Molise e della Valle d'Aosta dalla portata del comma 2 era necessaria nella formulazione originaria, giacché Molise e Valle d'Aosta, per evidenti ragioni numeriche derivanti dalla previsione costituzionale contenuta nell'art. 57, comma 3, hanno già solo senatori provenienti da collegi uninominali; cosicché l'eliminazione di quella eccettuazione non muta il segno dell'operazione abrogativa (non vi sono adesso e non vi sarebbero, dopo l'abrogazione referendaria, senatori di derivazione proporzionale in Molise e in Valle d'Aosta);
- l'abrogazione delle sole parole "tre quarti dei", anziché dell'intero inciso "pari ai tre quarti dei seggi assegnati alla regione", è frutto di un mero errore materiale dei promotori, che l'Ufficio centrale - pur sollecitato - non ha voluto correggere, ritenendo giustamente che il significato dell'operazione abrogativa non mutasse se la normativa residua suonava "il territorio di ciascuna regione ... è ripartito in collegi uninominali, pari ai ... seggi assegnati alla regione", ovvero "il territorio di ciascuna regione ... è ripartito in collegi uninominali"; tuttavia, se lo riterrà rilevante, ben potrà la Corte chiedere all'Ufficio centrale la correzione in tal senso, al fine di far coincidere sostanza e forma abrogativa del quesito.
***
8. Ancora circa il principio dell'ultrattività delle leggi elettorali abrogate.
La sentenza n. 5 del 1995 esclude che "dai precetti contenuti negli articoli 60 e 61 della Costituzione possa trarsi il principio secondo cui, in assenza di una espressa previsione legislativa, l'applicabilità di una nuova normativa elettorale sia, in deroga ai principi generali che regolano la successione delle leggi nel tempo e l'inizio e la cessazione della loro efficacia, automaticamente procrastinata fino a che la stessa non sia stata completata al fine di renderla operativa, con conseguente ultrattività medio tempore della legge anteriore: e ciò non può non valere anche in ordine ai rapporti tra abrogazione referendaria e normativa sottoposta a referendum".
I promotori del referendum ritengono di poter ancora sostenere l'operatività di un siffatto principio, confortati - adesso - dai seguenti ulteriori elementi.
In primo luogo, si può rammentare la presentazione di una proposta di legge, da parte dell'on. Giorgio Rebuffa (Atti Camera, n. 2423, XIII Legislatura - allegata), dal seguente tenore: "La successione nel tempo delle leggi elettorali è regolata dal principio secondo cui la norma anteriore continua ad applicarsi fino alla completa attuazione e operatività di quella posteriore".
Su tale proposta di legge si è già svolto, in Commissione Affari costituzionali, alla Camera dei Deputati (5 dicembre 1996), una significativa discussione, con interventi degli onorevoli Frattini (Forza Italia), Soda (Sinistra democratica), Bressa (popolari e democratici), Calderisi (Forza Italia).
Nel corso di tale dibattito, l'on. Frattini ha lucidamente precisato che "la domanda alla quale il Parlamento è chiamato a dare una risposta è se esista oppure no un principio generale, derivante dagli articoli 60 e 61 della Costituzione, di continuità degli organi parlamentari estensibile anche alla disciplina per la loro costituzione o rinnovazione. Se la risposta è positiva, considerato che le diverse possibili interpretazioni hanno un autorevolissimo precedente, il legislatore - a tutela di sé stesso e della certezza delle situazioni giuridiche - dovrebbe almeno dettare una disposizione interpretativa e ricognitiva. Se la risposta del Parlamento fosse negativa - se, cioè, il Parlamento condividesse la tesi su cui si fonda la sentenza n. 5 del 1995 della Corte - ancor più necessaria sarebbe l'introduzione di una norma volta a stabilire il principio di ultrattività in linea con il precedente specifico che è stato posto nella legge elettorale del 1993.
Simili favorevoli argomentazioni, nel senso dell'esistenza del principio ovvero della necessità di una norma ricognitiva, venivano svolte anche dagli altri oratori intervenuti.
***
D'altra parte, questi interventi ben si riallacciano agli interventi svolti già nel corso della discussione relativa all'approvazione della nuova legge elettorale per la Camera dei Deputati (v. Atti Parlamentari, XI Legislatura, seduta del 24 giugno 1993, pp. 15252 ss.). In quella sede, il deputato Francesco Giuliari pose la questione "se tra l'entrata in vigore della legge ed il momento in cui il Governo definirà i collegi sia possibile che il Presidente della Repubblica sciolga le Camere. Già a suo tempo ci siamo preoccupati che, anche in presenza di un referendum, non venisse meno la possibilità per il Presidente della Repubblica di attivare questo suo potere. Mi pare che ora stiamo approvando una legge che cambia la precedente, escludendo quindi che vi si possa far ricorso, ma nel contempo non può entrare in vigore perché ancora non sono stati definiti i collegi. Mi sembra quindi di capire che per quattro mesi, in qualche modo, si sospende il potere del Presidente della Repubblica di scioglimento delle
Assemblee parlamentari. Vorrei sapere se questa sia una mia preoccupazione immotivata o se abbia fondamento".
Al quesito dell'on. Giuliari fornì una prima risposta l'on. Passigli, affermando che "chiaramente non possiamo porre limite alcuno ai poteri che il Presidente della Repubblica ha in base alla Costituzione vigente. La legge che andremo a votare, prevedendo essa stessa la definizione dei collegi attraverso un certo meccanismo, non sarà completa finché essi non saranno fissati. Si continuerà dunque ad applicare la vecchia legge nel caso in cui il Presidente della Repubblica decida, secondo la procedura ben nota, di sciogliere le Camere. Credo quindi che la preoccupazione non abbia ragione di esistere".
Nello stesso senso si espresse il Ministro per le riforme elettorali e istituzionali, Leopoldo Elia, secondo il cui autorevole giudizio "a parte la questione dei poteri del Presidente della Repubblica, che ovviamente rimangono intatti anche nel periodo precedente il momento in cui la nuova legge diventerà operativa, circa l'applicabilità alla consultazione elettorale della vecchia o della nuova legge, quel che conta è che ci troviamo di fronte a un caso di scuola relativo alla distinzione tra entrata in vigore della legge ed efficacia delle sue disposizioni. L'entrata in vigore della legge deve avvenire o immediatamente, se così disporrà il Parlamento con apposita norma, o dopo la vacatio legis di quindici giorni. L'entrata in vigore ... è condizione perché il Governo possa esercitare la delega. Altra cosa è l'efficacia, l'operatività della legge, perché, trattandosi di collegi uninominali, è evidente che finché i collegi non saranno definiti la legge non potrà essere operativa".
***
9. Di alcune posizioni contenute nella sentenza n. 5 del 1995 della Corte costituzionale.
Nella sentenza n. 5 del 1995, facendo riferimento alle posizioni espresse dai promotori, si discute circa la "sussistenza di un dovere costituzionale di cooperazione dal Parlamento affinché la volontà popolare sia integrata e tradotta ad effetto, dovere costituzionale derivante da una asserita superiorità in grado del referendum rispetto alla legge ordinaria approvata dal Parlamento" e si nega l'esistenza di efficaci rimedi all'inerzia del legislatore.
Pare ai promotori di poter tornare su questi problemi, ispirando le proprie considerazioni ai seguenti argomenti:
a) l'esistenza di un principio e di una prassi di cooperazione tra legislatore referendario e legislatore rappresentativo va apprezzata non solo sul terreno della doverosità dei comportamenti, ma anche su quello della effettività;
b) la responsabilità per l'attuazione del risultato referendario non ricade solo, nei termini di mera responsabilità politica, sul Parlamento, nella sua veste di legislatore, bensì assume le forme di una responsabilità condivisa, che coinvolge - nei modi ad essi confacenti - tutti gli organi costituzionali;
c) l'ordinamento costituzionale conosce - ed ha sperimentato - rimedi giuridico-costituzionali che possono essere utilizzati anche nel caso che qui interessa.
***
10. Circa l'esistenza di un principio di cooperazione tra legislatore referendario e legislatore rappresentativo e la sua apprezzabilità sul piano effettuale.
Il terreno dei rapporti tra gli organi ed i soggetti costituzionali non è sempre il terreno della doverosità, bensì - in molti casi - quello della effettività.
E, posto sul piano della effettività, il problema del rapporto tra referendum elettorali e legiferazione di attuazione del Parlamento assume una coloritura diversa, degna di essere presa in considerazione e valutata ai fini dell'ammissibilità dei referendum in esame.
a) Nel 1993, la sentenza n. 32 aveva dichiarato ammissibile il referendum elettorale sul Senato sulla base della convinzione della "operatività del sistema elettorale" residuo, facoltizzando il legislatore ad interventi correttivi ("il legislatore potrà correggere, modificare o integrare la disciplina residua"): è ben noto come il legislatore, a seguito della sentenza della Corte e dell'esito positivo dei referendum, si sia tempestivamente mosso ed abbia tempestivamente approvato le leggi n. 276 e 277 del 1993, in modo da permettere al Presidente della Repubblica di sciogliere le Camere, nel gennaio 1994, essendo operante una legge elettorale perfettamente funzionante.
b) Sempre nel 1993, era stato ammesso, con la sentenza n. 33, il referendum sul D.P.R. n. 570 del 1960, recante il testo unico delle leggi per la composizione e la elezione delle amministrazioni comunali.
A distanza di meno di due mesi dalla sentenza di ammissibilità, veniva approvata e promulgata la legge 25 marzo 1993, n. 81, recante "Elezione diretta del sindaco, del Presidente della Provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale", che modificava profondamente il sistema precedente (ed è tuttora in vigore): il legislatore si era attivato, portando rapidamente a compimento la nuova legge elettorale per i comuni e le province, non già perché a ciò obbligato, bensì perché occorreva - politicamente - evitare che le elezioni amministrative, già fissate per il maggio 1993, fossero rinviate a causa dell'incertezza sulla legge elettorale da applicare.
c) Ulteriore testimonianza di come sussista, sul piano dell'effettività dei rapporti costituzionali, un'esigenza di adeguamento al risultato referendario e di come questa esigenza viene perseguita, anche al di là dell'esistenza di doveri giuridici, è la vicenda - già richiamata - della legge elettorale regionale del 1995: anche in quel caso, non esisteva nessun obbligo a ché il Parlamento modificasse la vecchia legge elettorale regionale, adeguandola ai principi emersi con il referendum del 1993; eppure, sul piano dei rapporti costituzionali, l'adeguamento della legge elettorale regionale costituì uno dei quattro punti programmatici del governo "tecnico" presieduto dal dott. Dini e la legge elettorale regionale, sulla base di un compromesso tra le forze politiche (il cd. "Tatarellum"), fu predisposta e rapidissimamente approvata dal Parlamento. E ciò al fine di permettere l'immediata (senza dover cioè prorogare la durata dei vecchi) elezione dei Consigli regionali sulla base di una legge elettorale che tene
sse conto - così fu ritenuto! - dei principi del referendum del 1993.
Anche qui nessuna cogenza indotta dalle prescrizioni della Corte; ma, sul piano dell'effettività, adeguamento, sia pure discutibile, della disciplina elettorale regionale da parte del legislatore ordinario.
***
11. Di un regime di responsabilità condivisa degli organi costituzionali per assicurare la "costante operatività dell'organo".
L'effetto abrogativo di una legge elettorale mette in movimento doveri costituzionali che coinvolgono di necessità l'attitudine ed i comportamenti di tutti gli organi costituzionali. E' probabile che la valutazione che, per ora - in sede di giudizio di ammissibilità - è consentita, risulti riferibile soltanto ad un rifiuto o ad un tralasciamento del Parlamento di dar seguito, razionale e conforme, ad una manifesta ed univoca volontà referendaria. In questa ipotesi, i tanto paventati timori di paralisi di funzionamento del Parlamento e di esproprio dei poteri di scioglimento del Presidente della Repubblica - per tacer poi di vuoto legislativo o di impedimento a tempo indeterminato che blocchi il ricorso a nuove elezioni - non sembrano in verità da sopravvalutare. Come si è già sottolineato, in realtà, l'avvicendamento delle leggi elettorali può comunque realizzarsi - fatto salvo sempre il conseguimento degli effetti abrogativi in itinere - in carenza di misure attuative, ricadendo sull'ultrattività medio tem
pore delle leggi elettorali anteriori.
L'inerzia del legislatore va infatti considerata alla stregua di un comportamento concludente rivolto a significare la volontà di impedire o rinviare il prodursi degli effetti che avrebbero dovuto verificarsi nel procedere normale della produzione giuridica.
Ma si diceva che i doveri costituzionali fondati dalla volontà abrogativa hanno carattere diffuso a tutta l'organizzazione dei poteri: l'eventuale - non auspicata - inerzia legislativa si prospetta in modo tale da sollecitare comunque "medio tempore" comportamenti e doverosità conseguenziali a tutti gli organi costituzionali e istituzionali coinvolti, a partire dal Capo dello Stato e dal Governo.
Intangibile ed intatto il potere di scioglimento proprio del Capo dello Stato, spetterà a quest'ultimo valutare (a partire dal momento in cui sia conseguito il risultato referendario) se il forzato differimento dell'effetto abrogativo possa risultare fisiologico (in considerazione, sia pure sviata, della continuità) o patologico (in considerazione del verificarsi e del protrarsi dell'inerzia). E trarne, in motivazione, contestuale od aliunde, del decreto di scioglimento, le dovute conseguenze, sollevando, se del caso, conflitto di attribuzione.
Il Governo, a sua volta, dovrà anch'esso intraprendere le iniziative che gli spettano a seguito dell'esito della consultazione referendaria, senza attendere che l'inerzia e la carenza si consolidini ed almeno rendersi immediatamente attivo, ponendo in essere tutte le iniziative che occorrano al fine di una revisione o di una integrale rideterminazione dei collegi uninominali, introducendo - se necessario - immediatamente i relativi disegni di legge delegata.
I Presidenti delle Camere, a loro volta, dovranno nominare la Commissione per la verifica e la revisione dei collegi elettorali, prevista dall'art. 7, comma 6, della legge n. 277 del 1993 (Camera dei deputati) e dall'art. 7, comma 4, della legge n. 276 del 1993 (Senato della Repubblica).
A sua volta, la stessa Commissione, una volta nominata, "ogni qualvolta ne avverta la necessità", dovrà formulare "le indicazioni per la revisione dei collegi, secondo i criteri di cui al presente articolo, e ... riferi[rne] ai Presidenti delle Camere".
Il Parlamento non potrà non prendere atto di queste attività e provvedere: portare a compimento una nuova legge elettorale è per il Parlamento fonte di sola responsabilità politica, non giuridicamente sanzionata; ma certo è difficilmente pensabile che un corpo elettivo voglia presentarsi davanti al suo corpo elettorale con la responsabilità di aver impedito il nascere della nuova legislazione elettorale, conseguente al voto referendario!
L'utilizzazione di tutti gli strumenti e le procedure al fine di condurre a compimento l'opera della nuova legge elettorale è, invece, fonte di vera e propria responsabilità giuridica per tutti gli altri soggetti (Governo, Presidenti delle Camere, Commissione per la verifica e la revisione dei collegi elettorali): sulla corretta attivazione dei poteri vigila - e non potrebbe essere altrimenti - il Capo dello Stato.
***
Tenuto conto di quel che si è detto, è necessario ribadire che affermare che il sistema elettorale di risulta è destinato in ipotesi (ma anche in tesi) a procrastinarsi nel limbo, sintantoché perduri l'inerzia del legislatore, poiché l'ordinamento non offrirebbe comunque alcun efficace rimedio (il che si nega), è possibile soltanto partendo dal presupposto che instauratasi, per quel che attiene al modo di operare del sistema elettorale, una situazione di decostituzionalizzazione strisciante che si estende a tutte le disposizioni costituzionali che disciplinano l'organizzazione dei poteri a seguito della forzata ma effettiva convivenza della disciplina di risulta in attesa di attuazione e di quella preesistente, l'inerzia del legislatore sia altresì assistita dall'inerzia degli altri organi costituzionali, quasi che tutti cospirassero a garanzia dello statu quo dell'inadempimento.
E' invece proprio alla esigenza di assicurare la "costante operatività dell'organo" che devono essere commisurati anche i doveri costituzionali che, in seguito al verificarsi dell'effetto abrogativo, incombono sugli altri organi costituzionali coinvolti.
La responsabilità per l'attuazione del risultato referendario è così da considerarsi condivisa, a titolo proprio, dagli altri organi costituzionali la cui sfera di attribuzioni è direttamente legata all'inverarsi del corretto rapporto tra legislatore popolare e legislatore rappresentativo ed è connotata anche sotto profili di responsabilità giuridica.
***
12. Della esistenza, infine, di rimedi volti a garantire la "costante operatività dell'organo".
La sentenza n. 5 del 1995 ribadiva "l'assoluta indefettibilità di un sistema elettorale permanentemente efficiente... in guisa che, in qualsiasi momento della vita dello Stato, sia garantita la possibilità di rinnovamento delle Camere, che si renda necessario per la scadenza naturale delle medesime, ovvero a seguito dell'esercizio del potere di scioglimento anticipato da parte del Presidente della Repubblica, esercizio che a sua volta non può subire impedimenti".
La sentenza individuava così un soggetto che risulterebbe leso da un'inerzia - parlamentare e governativa - circa l'emanazione di una nuova legge elettorale: tuttavia la stessa sentenza non ha poi compiuto il passo conseguente.
C'è infatti nell'ordinamento costituzionale italiano una generalissima norma di salvaguardia che permette di giuridicizzare ( di una situazione in cui "la politique est sasie par le droit" ha parlato un autore francese, conoscitore delle vicende italiane, a proposito della tendenza espansiva delle giurisdizioni costituzionali) tutti i conflitti o, comunque, le situazioni di tensione - anche sul piano dell'omissione - costituzionale: ed è quella che attribuisce alla Corte costituzionale di giudicare "sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato".
Se è vero che lo scioglimento delle Camere richiede un atto del Capo dello Stato; se è vero poi che lo scioglimento anticipato costituisce - secondo accreditate dottrine - potere proprio del Capo dello Stato; se è vero infine che una situazione di inerzia legislativa del dare attuazione alla nuova legge elettorale, conseguente ai risultati del referendum, lederebbe il potere del Capo dello Stato di sciogliere le Camere, anticipatamente ovvero per decorso della scadenza costituzionale: ebbene, se tutto ciò è reputato vero, è conseguentemente difficile negare che - nella malaugurata ipotesi di una perdurante inerzia legislativa - il Capo dello Stato avrebbe la possibilità di sollevare conflitto di attribuzione contro le Camere e, se del caso, contro il Governo, lamentando che la mancata o l'intempestiva attuazione della legge elettorale rende inutilizzabile il suo potere di scioglimento.
E, in quella sede, la Corte costituzionale - che sempre ha ritenuto di poter sanzionare le omissioni legislative, né si è mai ritratta dalla possibilità di porre termini temporali alle dichiarazioni di illegittimità costituzionale - ben potrebbe individuare le soluzioni tecniche più adeguate per dar seguito al conflitto, anche sollevando di fronte a sé stessa la questione di legittimità costituzionale: ad esempio (ma solo per fare un esempio), dichiarando l'incostituzionalità dell'art. 7, della legge n. 276 del 1993 e dell'art. 7, della legge n. 277 del 1993, nella parte in cui non prevedono che i meccanismi lì previsti per la revisione dei collegi uninominali siano operativi senza bisogno di una delega legislativa (il parere della Commissione lì prevista, e nominata - in funzione garantista - dai Presidenti delle Camere, potrebbe, nel caso di inerzia legislativa, essere recepito direttamente con atto del Governo).
P.Q.M.
I signori Rita Bernardini, Raffaella Fiori, Mauro Sabatano, come sopra rappresentati e difesi, insistono per l'ammissibilità dei referendum in epigrafe.
Si allega: proposta di legge dell'on. Rebuffa; dibattito in Commissione Affari costituzionali 5.12.1996
Roma, 4 gennaio 1997
prof. avv. Giovanni Motzo
prof. avv. Beniamino Caravita di Toritto