DIRE "NO" ALLA DROGA E LOTTARE CONTRO LA SCHIAVITU'di Pino Arlacchi
Non c'è solo il dibattito sulla giustizia a tenere alta, in queste settimane, la temperatura della vita pubblica. Si è tornati a discutere anche di droga. Entrambe le controversie, purtroppo, presentano alcuni dei difetti più evidenti del dibattito politico-intellettuale italiano.
Mi riferisco alla non conoscenza dei dati essenziali sulle questioni in gioco e alla confusione dei termini e dei concetti adoperati per sostenere i diversi punti di vista.
Il rischio di una discussione tutta ideologica e campata sull'equivoco è perciò molto alto. Restiamo nel campo delle politiche contro la droga. Sono passati quasi trent'anni dalla nascita del dibattito tra sostenitori e avversari della proibizione ed ecco spuntare di nuovo, imperterrita, la spaccatura fra chi difende l'assetto normativo vigente e chi propone una linea radicalmente alternativa.
La discussione si svolge secondo il solito rituale, senza che nessuno si curi troppo del significato di termini quali liberalizzazione, legalizzazione, depenalizzazione e distribuzione controllata. L'importante è "dichiarare", avere una posizione da esibire nel supermarket delle opinioni.
Ci si divide tra proibizionisti ed antiproibizionisti con la stessa cieca disinvoltura con la quale si ergono gli steccati tra "garantisti" e "giustizialisti". Poco importa che la crescita e la globalizzazione dei mercati illeciti abbiano drasticamente alterato le condizioni del fenomeno della tossicodipendenza, rendendo inutile e datata la dialettica tra repressione e tolleranza. Poco importa che si sia sviluppata, nel frattempo, una compatibilità tra proposte di distribuzione controllata di eroina da una parte, e prospettiva proibizionista dall'altra. Nessuno sembra interessato a riflettere sui mutamenti che hanno portato l'intera questione dell'abuso delle droghe su un piano completamente nuovo.
Ciò che conta è fare rumore, notizia. A colpi di slogan e di frasi fatte invece che attraverso l'esposizione di cifre, ragionamenti articolati, esperienze. Si dà per scontato un aumento del consumo di droga pesante in Italia , quando molti dati mostrano una situazione differente, di stagnazione o di declino. Si sentenzia il fallimento di tutte le politiche antidroga fin qui adottate, e non viene citata una sola prova convincente. Si ignora il contesto mondiale degli scambi illegali, e si qualifica in termini grotteschi l'insieme delle misure di contrasto messe in piedi dalla comunità internazionale lungo un arco di quasi 80 anni.
Provo ora ad approfondire un solo esempio di equivocità e di scarsa conoscenza del dibattito: il caso del sistema internazionale di controllo dei narcotici. Nell'immaginazione di molti, l'attuale regime di proibizione delle droghe è una specie di cappa etica e istituzionale imposta dagli Stati Uniti al resto del mondo. Un atto di imperialismo morale, nutrito di intransigenza puritana e reazionaria contro la diversità incarnata dal tossicomane, e sorretto dagli interessi di potere delle agenzie che gestiscono la repressione del traffico.
Questa concezione è in realtà una caricatura ingiusta e faziosa. Essa stravolge il significato di un assetto normativo che è nato ai primi del Novecento da una matrice esattamente opposta. E cioè da un movimento di promozione della dignità e della libertà dell'uomo iniziato, a sua volta, duecento anni prima. E strettamente intrecciato con la lotta contro lo schiavismo , contro il traffico delle donne e contro il commercio delle armi da guerra.
La storia del "Moloch proibizionista" non ha niente a che vedere con l'oscurantismo e il pregiudizio. Per gli spiriti illuminati i riformatori sociali di estrazione laica e religiosa riunitisi a Shangai nel 1909 per la conferenza sulle droghe, la battaglia per l'abolizione della schiavitù, per la messa sotto controllo della produzione e del commercio delle armi, e contro la "tratta delle bianche", faceva tutt'uno con la guerra al commercio dell'oppio.
Il Congresso dell'Aia svoltosi tre anni dopo , fu il prodotto della tragedia cinese e della cattiva coscienza dell'Occidente. Il dramma della Cina era noto a tutti: la diffusione dell'oppio prodotto in India e venduto dai mercanti inglesi aveva provocato nell'Impero Celeste la più devastante epidemia dell'Ottocento. Oltre dodici milioni di oppiomani, sparsi in tutti i ceti, avevano prostrato il morale del Paese. Gli imperatori avevano tentato di chiudere le frontiere al commercio della droga, ma le cannoniere britanniche al servizio del libero scambio (e dei profitti della East India Company) li avevano sconfitti e umiliati nel corso delle due "guerre dell'oppio".
Il rimorso dell'Occidente era rappresentato, nella conferenza dell'Aia, dai delegati della Gran Bretagna e degli USA (Paese che rappresentava, già all'epoca, un numero significativo di consumatori di oppio e morfina), che guidarono i lavori fino alla firma, da parte delle tredici nazioni convenute, della prima delle convenzioni sul narcotraffico che si sono susseguite fino ad oggi.
Da allora in poi è cresciuto, per impulso soprattutto delle Nazioni Unite, un complesso di regole, accordi e sanzioni condiviso da tutti i Paesi del pianeta, che mettono sotto controllo la produzione, la lavorazione e il commercio legale dell'oppio, della coca e dei loro derivati, nonchè delle altre sostanze psicotrope.
La matrice culturale del cosiddetto "sistema proibizionista" è da ricercarsi, dunque, nella lotta per l'affermazione dei diritti universali dell'uomo, per la sua liberazione dalla schiavitù dell'abuso delle droghe. E' una verità storica poco conosciuta o negletta, che andrebbe qualche volta ricordata nel dibattito di oggi.