di Giovanni Sabbatucci
(Il Messaggero, 5 gennaio 1997)
Sarà certamente una settimana piena quella che tiene dietro a un periodo festivo già di per sé tutt'altro che tranquillo. Una settimana in cui la sorte ha voluto concentrare una serie di scadenze e di appuntamenti che toccano tutti, o quasi tutti, i temi-chiave della vita del paese. Dal governo dell'economia al sistema politico, dal ruolo degli organi costituzionali all'amministrazione della giustizia. Anche lasciando da parte il tema dell'economia, oggetto in questi giorni di polemiche più che altro retrospettive (il tempo delle decisioni, prevedibilmente dolorose, verrà di qui a qualche mese), anche accantonando quello della giustizia, che esigerebbe (non ci si stancherà mai di ripeterlo) di essere trattato a prescindere dalle contingenze politiche quotidiane, basterebbe l'intreccio tra le scadenze politico-partitiche e quelle che attengono al funzionamento delle istituzioni a creare un ingorgo per molti aspetti preoccupante.
L'8 gennaio la Corte costituzionale si riunirà in un clima tutt'altro che sereno per deliberare sull'ammissibilità di una trentina di quesiti referendari, capaci di modificare l'agenda della politica italiana da qui ai prossimi anni; e lo farà a pochi giorni di distanza dalla promulgazione di una legge (quella sul finanziamento dei partiti) che, comunque la si voglia giudicare, ha sostanzialmente vanificato il verdetto di un referendum nemmeno tanto remoto. Il 9 gennaio si aprirà a Roma il congresso del Partito popolare, che certo non rappresenta più il cardine dell'intero sistema politico (come fu per mezzo secolo la Dc), ma può ugualmente condizionare, con una semplice correzione di rotta, gli equilibri del governo e della maggioranza. Negli stessi giorni, le forze di opposizione si pronunceranno sulla sorte della Commissione bicamerale: decideranno cioè se aprire o se bloccare sul nascere la via più agevole e più piana per la riforma della Costituzione e del sistema politico.
A rendere preoccupante la coincidenza fra questi eventi non è solo il pericolo di una reciproca interferenza fra piani che dovrebbero restare distinti. E' anche, e soprattutto, il clima generale, la cornice di opinione pubblica in cui quegli eventi si inquadrano. Non c'è bisogno di essere maghi dei sondaggi per avvertire un diffuso clima di discredito nei confronti della politica e dei politici. Per capire che il cittadino comune, già colpito dalle misure fiscali di fine anno e infastidito dalle irritanti esibizioni di ottimismo da parte degli uomini di governo, ha vissuto la reintroduzione del finanziamento pubblico dei partiti come un autentico tradimento consumato ai suoi danni da parte dell'intera classe politica. Si può anche pensare che quell'intervallo era inevitabile (magari non necessariamente in quella forma), come si può sostenere che le misure economiche varate dal governo non avevano serie alternative. Ma, nell'un caso come nell'altro, sarebbe stato meglio parlare chiaro, evitare le pietose
bugie, trattare insomma gli elettori da cittadini adulti e responsabili.
Questo non è avvenuto. E la crisi di fiducia che ne è derivata - e che ricorda per certi aspetti il clima del tramonto della prima Repubblica - ha finito per colpire un po' tutti. Non risparmiando nemmeno - questa è la mia sensazione - i critici più radicali del sistema, i battitori liberi come Segni, Pannella e lo stesso Bossi. Il leader leghista è praticamente scomparso di scena e appare incapace di disimpegnarsi dalla impasse estremista in cui si è imprudentemente cacciato. Segni sta spendendo gli ultimi spiccioli della sua popolarità per la causa della Costituente: ma difficilmente potrà convincere gli italiani che la via più sicura per cambiare le istituzioni stia nell'elezione, fra due o tre anni, di una nuova assemblea, con metodo proporzionale. Così come Pannella, per quanto si prodighi in digiuni e maratone oratorie, durerà qualche fatica a dimostrare l'opportunità di sottoporre agli elettori, con cadenza annuale, raffiche di quesiti non sempre comprensibili, scelti e imposti alla collettività
da una minoranza, ancorché cospicua, di cittadini.
Sarebbe comunque già un bene se la minaccia dei referendum - anziché prefigurare un trasferimento della funzione legislativa dalle assemblee rappresentative agli elettori, secondo un discutibile modello di democrazia diretta - stimolasse il Parlamento a legiferare con maggior rapidità e concretezza, a varare le misure liberalizzatrici da troppo tempo annunciate e mai seriamente avviate, a mettere soprattutto in cantiere, per la via più rapida e naturale, le riforme (non solo elettorali) atte a semplificare i meccanismi istituzionali e a rendere irreversibile la scelta per la democrazia dell'alternanza: quella che gli elettori hanno inequivocabilmente e ripetutamente mostrato di gradire. Per uscire dal discredito da cui è tradizionalmente circondata nel nostro paese, la politica non ha altro mezzo se non quello di rendersi più semplice, più leggibile, più sincera. Il resto è fuga in avanti o pericolosa scorciatoia.