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LA REPUBBLICA 23 GENNAIO 1997

RESTANO I DUBBI

di GIUSEPPE D'AVANZO

ADRIANO Sofri ha perso la sua solitaria battaglia. La

Cassazione ha respinto il ricorso contro la sesta sentenza del processo Calabresi che lo ha condannato, con Giorgio Pietrostefani e Ovidio Bompressi, a 22 anni di reclusione.

L'intellettuale, ex leader di Lotta continua, dovra' tornare in carcere. Ha 55 anni e la sentenza e' per lui una condanna all' assoluzioni, restano ombre probatorie e dubbi sulla correttezza deontologica dei giudici.

QUEL pasticciaccio brutto che e' il processo Calabresi (o processo Sofri) ha avuto un solo filo. Lo ha srotolato, ingarbugliato, annodato, in uno glio'mmero degno di Gadda, Leonardo Marino. Il venditore ambulante di cre'pes - testimone e reo confesso per l'assassinio del commissario (per lui, prescrizione del reato e impunita') - e' stato l'unica fonte di prova, il fondamento dell'accusa e della condanna a 22 anni di carcere di Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani, Ovidio Bompressi.

I sei processi (in sei anni) dovevano avere una sola

domanda sulla scena parlata del dibattimento: Leonardo

Marino racconta la verita'? Quali sono i riscontri, le

testimonianze, i corpi di reato che possono confermare il suo racconto e la chiamata di correita'? Ne ha avuto purtroppo un'altra, processualmente abusiva: perche' dovrebbe mentire? Fin dai primi passi, l'istruttoria di questo processo, uno degli ultimi celebrati secondo la vecchia procedura penale, ha avuto un odore inquisitoriale tale da provocare anche in uno storico, come Carlo Ginzburg, abituato per ragioni di mestiere a leggere i processi del Cinquecento e del Seicento, "un leggero spaesamento" tanto le carte del processo Calabresi avevano singolari analogie con le pratiche inquisitorie. Istruttoria condotta in luoghi segreti e impropri (come le caserme dei carabinieri). Nessun

contraddittorio. Ipotesi elaborate dall'inquisitore in un

quadro paranoide. (Dalla sentenza: "Se l'omicidio e'

attribuibile a Lotta continua - e nessun'altra organizzazione ha potuto essere imputata del fatto - la decisione di uccidere deve essere stata presa dal vertice del movimento"). Si sa come finiva tre o quattro secoli fa: nasceva un'impura casistica delle confessioni contro i correi, talvolta ottenute con promesse d'impunita'. Nei fatti lo stile inquisitorio, legalmente, non aveva regole da rispettare: il segreto, quel metodo introspettivo e l'impegno ideologico degli operatori escludevano vincoli, forme, termini. Contava l'esito. Lo si conquistava con argomenti spesso invulnerabili dalla logica comune. Ne' piu' ne' meno e' quanto e' accaduto nel processo Sofri. La Corte di Cassazione, il 27 ottobre 1994, ha annullato una sentenza di assoluzione scritta da un giudice a latere contrario alla decisione (come accusa Sofri sostenuto dalla testimonianza di alcuni giudici popolari) acconciamente e malignamente argomentata per essere cancellata. La Suprema Corte ha chiesto ai nuovi giudici di verificare "l'intriseca

validita' delle dichiarazioni di Marino secondo quattro canoni: la precisione, la coerenza, la costanza, la spontaneita'". I nuovi giudici, ancora prima del processo, avevano gia' chiara la conclusione. Condanna. Lo testimoniano alcuni giudici popolari. E' in corso un'istruttoria a Brescia.

Chi ha avuto la pazienza di leggere le 538 pagine della

sentenza emessa dalla terza Corte d'assise d'appello di

Milano (presidente Giangiacomo Della Torre, giudice a

latere Luigi de Ruggiero) puo' toccare con mano quanto sia stato disatteso l'imperativo della Suprema Corte. Non si puo' qui rifare la storia di un processo, ma si possono ricordare la sparizione di tutti i corpi del reato, il giudizio di inattendibilita' con cui sono stati valutati i testimoni oculari del delitto che smentivano la ricostruzione di Marino ("fisiologicamente inattendibili"). E si puo' brevemente accennare alla congruita' della testimonianza di Marino con i quattro canoni di verifica processuale indicati dalla Cassazione.

Il racconto di Marino e' largamente impreciso. Il reo

confesso dice che la Fiat 125 usata nell'agguato del 1972 era blu e non beige. Indica come via di fuga, dopo il delitto, via Giotto (o via Belfiore) verso piazza Wagner mentre dalle testimonianze oculari risulta che gli assassini fuggirono svoltando in via Rasori diretti verso via Ariosto, angolo via Alberto da Giussano dove abbandonarono l'auto. E' incoerente. Ricorda che Ovidio Bompressi (bruno) si ossigeno' i capelli in occasione del delitto. E tuttavia nonostante gia' le prime cronache del delitto riferiscano di "un assassino biondo", Bompressi - racconta Marino - due mesi dopo va ancora in giro in una piccola citta' come Massa con i capelli fintobiondi. E' incostante. Sostiene il 21 luglio 1988 di essere stato avvicinato a Pisa "da Sofri e Pietrostefani" che gli assegnano il mandato assassino. Al giudice istruttore precisa "di aver parlato soprattutto con Sofri perche' Pietrostefani lo aveva incontrato spesso a Torino...". Il 17 giugno 1988 conferma "il colloquio con Sofri e ricorda la pre

senza di Pietrostefani". Quando Pietrostefani riesce a dimostrare di non essere stato a Pisa quel giorno (13 maggio 1972), dichiara di "non potere affermare con certezza la presenza di Pietrostefani". Al dibattimento di primo grado riferisce "di essersi convinto della presenza di Pietrostefani, ma di non averne memoria".

"Piccoli errori, dimenticanze, imprecisioni, sovrapposizioni di ricordi" - hanno sempre detto i giudici - che irrobustiscono l'attendibilita' e la spontaneita' di Leonardo Marino. E siamo al punto: la confessione di Marino e' stata spontanea? "I sentimenti di rimorso, catarsi, liberazione, indicativi di una nobilta' d'animo" sono fuori discussione per i giudici. Ma e' cosi' davvero? Marino ha sempre raccontato che, moralmente convertito, ansioso di espiare le sue colpe, abbia bussato alla caserma dei carabinieri per confessare il 21 luglio 1988. Non e' cosi', come e' stato dimostrato durante i processi. Non e' stato Marino ad andare dai carabinieri, ma i carabinieri da Marino e, dal 2 luglio, per venti lunghi giorni, sempre di notte, in colloqui mai verbalizzati e senza la presenza del giudice istruttore, Marino si e' intrattenuto con i carabinieri, i quali per un anno e mezzo non hanno mai svelato la circostanza.

Le tracce dell'imprecisione, incoerenza, incostanza, non spontaneita' di Leonardo Marino sono ben leggibili nella

sentenza della Corte d'appello di Milano che ieri era

all'esame della Cassazione. La Suprema Corte non le ha

volute leggere. Ha preferito avvoltare il filo aggrovigliato del pasticciaccio brutto intorno all' inutile e abusiva domanda: perche' Marino avrebbe dovuto mentire? Non hanno trovato risposta, facendo calare su Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani, Ovidio Bompressi il buio di una condanna irragionevole, incongrua, ingiusta. La condanna di un'altra epoca.

 
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