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IL MANIFESTO 23 Gennaio 1997

LA STORIA E' CHIUSA. IN UNA CELLA

La Cassazione conferma e rende definitiva la condanna: 22 anni a Sofri, Bompressi e Pietrostefani per l'omicidio Calabresi

Articolo di CARLO BONINI

E' UN SOFFIO lugubre. Quasi asfittico nella monotonia rituale con cui e' pronunciato da Vittorio Palmisano, presidente della quinta sezione penale della Corte di Cassazione. Arriva alle 23.30, dopo tre ore di camera di consiglio, notturno come il destino che riserva agli uomini cui e' destinato. Adriano Sofri, Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani dovranno scontare 22

anni di reclusione per l'omicidio del commissario di polizia Luigi Calabresi. I ricorsi verso l'ultima delle condanne inflittegli dalla terza sezione della corte di assise di appello di Milano sono respinti. Dopo 25 anni da quella mattina del 1972, 8 dall'apertura del processo di primo grado e sei pronunce, la giustizia di questo paese consegna alla sua storia il mostro di carte e di logica che ha partorito con un sigillo di colpevolezza. Leonardo Marino, ex militante di Lotta continua, "pentito" confuso e oscuro, solo motore dell'accusa, sara' l'unico a restare a piede libero. Si e' autoaccusato, e' vero, ma per lui, premiato con uno sconto di pena e con il riconoscimento della prevalenza delle attenuanti sulle aggravanti, non ci sara' un futuro dietro le sbarre. La prescrizione ha fatto il suo corso regalandogli il proscioglimento. Ad ascoltare la sentenza, nessuno degli imputati, solo Nicola Sofri, figlio di Adriano e i microfoni aperti di Radio radicale. Sono stati loro ad annunciare all'ex leader di Lot

ta Continua, protetto da tutto e da tutti in una casa romana, la sua ultima notte da uomo libero. Si consegnera' probabilmente oggi stesso, in un epilogo che lui stesso aveva annunciato. "E' una notizia incommentabile - fa sapere attraverso le agenzie di stampa - Questa sentenza conclude un'infamia durata nove anni. Adesso

andro' in galera, l'ho sempre detto. Dentro di me sono sempre stato preparato a cose piu' serie che non a queste ignobili porcherie". Marcello Gentili, uno dei suoi avvocati, ha la voce rotta dall'emozione o forse da una rabbia che non riesce a contenere: "E' un verdetto profondamente ingiusto. Ora, non c'e' alcuna possibilita' che il processo si riapra. Ora, c'e' solo il carcere". Gaetano Pecorella, codifensore, se possibile e' ancora piu' duro: "La Cassazione ha smentito se stessa. Oggi ho perso quel po' di fiducia che ancora avevo nella giustizia".

Parole che raccontano rabbia e graffiano il vetro oscuro di una pronuncia che "premia" l'ostinazione accusatoria di una procura pesante, quella di Milano, ma che, soprattutto, con una capriola di giurisprudenza, risolve, con una doppia affermazione, un unico ossessivo e fino a ieri irrisolto quesito: e' credibile il pentito Leonardo Marino, l'ex militante di Lotta Continua che, ventisei anni dopo l'assassinio Calabresi, trascina in un incubo processuale i suoi compagni di un tempo? E' sufficiente la sua parola per condannare gli imputati in assenza di qualsivoglia riscontro oggettivo? Non era la prima volta che queste domande riempivano il vuoto dei corridoi del palazzaccio. Era successo nell'ottobre del '92 e quindi nell'ottobre del '94. Erano tornate ieri, insistenti, identiche ad allora. Come se il tempo non fosse trascorso. In un perverso gioco del destino che aveva visto due corti di appello disattendere nelle loro motivazioni, ora con una pronuncia di condanna, ora di assoluzione, un principio ribadito

dal codice prima ancora che dalla giurisprudenza, almeno fino ieri. Per condannare non basta la parola di un pentito, ci vogliono anche prove a riscontro. Anche per tutto questo, forse, i volti dell'ultima puntata di questa tragica saga erano apparsi, nelle dieci ore di dibattimento che ha preceduto il verdetto, se possibile ancora piu' corrugati, avviliti nello sforzo di ascoltare quanto ripetuto fino alla nausea. Avevano cominciato le parti civili. Gli avvocati Luigi Li Gotti, Odoardo Ascari e Fausto Angelucci. C'e' da difendere una sentenza di condanna. Dunque, nessun dubbio. L'ultima sentenza di appello della terza sezione della corte di appello di Milano va bene cosi' com'e'. E' coerente e logica nelle sue motivazioni. Certo, fa una scelta di campo, crede al solo Marino e non ad imputati e testimoni. Ma questo - argomentano - e' materia di un giudizio di merito, non di discussione in sede di diritto, quale e' la Cassazione. "Si' - fa eco il sostituto procuratore generale Luigi Ciampoli - il problema no

n e' quello di accertare se Marino dica o meno la verita'. Il problema, per il giudice, e' capire se Marino e' attendibile. E su questo punto le motivazioni della condanna non commettono errori di diritto o logici". Dunque, che si confermi la sentenza e si chiuda questo processo per sempre. Sembravano argomentazioni destinate a sgretolarsi sul frangiflutti che, fino a ieri, ha protetto la stessa giurisprudenza della Cassazione e cui, non a caso, la stessa corte si era richiamata prima a sezioni unite, quindi con una sentenza della sua prima sezione: nessuna condanna senza riscontri probatori. Ma quando, a pomeriggio inoltrato, cominciano a parlare le difese sembra che le parole non abbiano piu' alcuna possibilita' di scavare una breccia di attenzione. Ci provano Menzione per Bompressi, Reina per Pietrostefani, Gentili, Pecorella e Gallo per Sofri, testardamente. La lente torna sulle decine di incongruenze della deposizione di Marino, sull'assenza disperante di riscontri oggettivi alle sue accuse. Su un sospe

tto. Quello che l'ultimo giudice di appello non sia stato imparziale. Che Giangiacomo Della Torre, il presidente della terza sezione della corte di assise di appello che ha condannato nel novembre '95 Sofri, Pietrostefani e Bompressi a 22 anni, nutrisse un forte

pregiudizio di colpevolezza. Confessato prima ancora che si aprisse il processo. Sofri, per questo, lo ha denunciato alla procura di Brescia e ora quell'esposto e' l'ultima esilissima speranza cui e' aggrappata la possibilita' di riaprire il processo. L'ultima arringa e' per Marcello Gallo, il cattolico "professor Gallo", principe del diritto penale, prima che del foro. La sua e' un'arringa in difesa prima che di un imputato delle garanzie del diritto penale. Appassionata,

lucida. "Sarebbe terribile - conclude - voler rispondere all'offesa per un delitto infame trovando dei colpevoli come che sia". La corte non la pensa cosi'.

 
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