L'"Opinione", 28 febbbraio 1997(Forse non interessa la Confe, nel suo insieme, ma mi è parso utile inserire l'articoletto, che è essenzialmente un omaggio a Bruno Zevi, grande personaggio culturale del nostro tempo. Scusate il disturbo).
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Me lo concede il direttore? Posso parlare, un'ultima volta, di revisionismo? La questione mi ossessiona. La Germania si rialza intatta dalla graticola della "schuldfrage" e giocherella pericolosamente sull'olocausto; perché l'Italia, che dopotutto ha minori responsabilità nei guai del secolo, dovrebbe star lì ancora a pagare per le manganellate di Farinacci & Co.?
Figurarsi, poi, quando il revisionismo lo fa un antifascista. Un antifascista che più incallito non si può. Un antifascista intriso di vetriolo azionista. Parliamo (come sbagliarsi?) di Bruno Zevi, dell'amico Bruno Zevi. Nessun altro ha saputo resistere più di lui sugli spalti spericolati e impervi della polemica contro il ventennio nero, nessuno più di lui ha rovesciato anatemi, sarcasmo, sfida all'incultura mussoliniana e ai suoi disastri. Ebbene, questo Robespierre dell'architettura moderna, questo sacerdote dei canoni di Le Corbusier e Mies van der Rohe, di Aalto, della Bauhaus e sopratutto di Frank Lloyd Wright, il poeta dell'organicismo integrale, dell'immensità dello spazio e della libertà dell'immaginazione, l'autore delle Prairies Houses e della Casa sulla Cascata, "Divina Commedia del linguaggio architettonico moderno", Bruno Zevi, ripetiamo, rende un omaggio franco, sincero e leale all'architettura fascista, anzi all'architettura fascista e romana, tessendo gli elogi dei suoi maestri, i Terragni,
i Persico, i Michelucci, architetti in camicia nera per amore della rivoluzione, dell'assoluto della ragione, della lotta contro gli orpelli della borghesia, o forse solo per essere meglio antifascisti ...
Il revisionismo di Zevi è rievocazione di una occasione, di una stagione perduta. Altri, invece, fomentano torbidi equivoci. Nel campo delle arti, della storia culturale del ventennio, è il peggio che viene quotidianamente rivalutato: la revisione diventa vera e propria restaurazione, per imporre al mercato i più mediocri, infimi, illeggibili cascami del novecento all'italiana spacciati come sana arte contemporanea, fuori e oltre le baggianate dell'avanguardia.
Col suo revisionismo, Zevi è sempre genialmente rivoluzionario. Negli straordinari fascicoli di "Storia e controstoria dell'architettura in Italia" (1997) e nei saggi di "Leggere, scrivere, parlare architettura" appena riproposti dalla Marsilio, ribadisce le linee di una polemica antipassatista e antiaccademica combattuta in nome della responsabilità intellettuale e morale che compete all'artista di fronte ai conformismi del potere e al Kitsch populista. Quegli altri sono fantasmi che scoperchiano livide tombe. Il loro revisionismo nasce dal logorio della parola e del dialogo, vera maledizione del nostro tempo. E' una operazione-smarrimento, che va decisamente combattuta se non si vuole sbandare, perdere il senso di una direzione di marcia che occorre invece riprendere, con urgenza. L'Europa sta camminando, sta elaborando esperienze nuove, nuove espressività, mentre in Italia stiamo ricadendo nell'ignavia intellettuale degli anni '40, i più tristi ed inutili del secolo. Non a caso i migliori architetti itali
ani lavorano all'estero (per colpa dei politici, e non dei burocrati, come si favoleggia).
Nelle sue varie sfaccettature il revisionismo è cosa tremenda: attraverso i tanti lampeggiamenti positivi, ma anche negli imperdonabili errori e cadute riaffiora costante il problema del rapporto tra tradizione italiana ed avanguardia, lo scontro tra gli idiotismi di sottocasa e i linguaggi delle esperienze rivoluzionarie dell'intellighentia mondiale: solo una troppo facile superbia può pensare di sciogliere d'un colpo i nodi storici che formano la dannazione segreta di questo paese e lo portano a non potersi amare e doversi accettare, a non capirsi e doversi difendere, a non poter fare a meno della sua gloria e a disprezzarla.
Galli Della Loggia accusa: la Nazione è morta l'8 settembre 1943. Magari senza accorgersene eccolo, anche lui, a giustificare la lotta ideologica dei novecentisti, di Bontempelli, dei sarfattiani, dei Soffici, di Ojetti per preservare uno spazio alla "civiltà nazionale" da contrapporre all'Ecole de Paris, celebrandone prima l'inutile, stridente apogeo nella splendida mostra del Decennale della Rivoluzione Fascista e poi affondandolo negli orrori della fallita Esposizione del '42.
Angiolo Bandinelli