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Conferenza Movimento club Pannella
Colombo Emilio - 1 marzo 1997
LA FORZA DEL PASSATO
di Angelo Panebianco

(Corriere della Sera, 27 febbraio 1997)

Se la sinistra ripete gli errori dc.

E' normale, quando si cerca una bussola per orientarsi nella contorta, confusissima, situazione italiana, guardare fuori dai confini, ispirarsi a quei sistemi politici nei quali, per la loro struttura, politico-istituzionale e per le loro consuetudini, la dialettica politica appare più "semplice", più trasparente, più immediatamente comprensibile. Tanto l'offerta di Berlusconi, nella sua lettera della settimana scorsa all'Unità, di un patto per l'Europa, di un accordo bipartisan fra maggioranza e opposizione, quanto il discorso congressuale di D'Alema, laddove egli delineava l'evoluzione dei rapporti fra maggioranza e opposizione, evocavano implicitamente le relazioni politico-parlamentari proprie, in alcune fasi della sua storia, della Gran Bretagna. Ma Sergio Romano, sulla Stampa, giustamente ricordava che purtroppo il nostro sistema politico non ha nulla a che fare con quello britannico. Lì sono il bipartitismo e il governo del premier a rendere talvolta possibile ciò che per noi, se non impossibile, è di

sicuro molto arduo da realizzare.

Sempre frugando nelle esperienze altrui, all'indomani del primo congresso del Pds nell'era della sinistra al governo e del forte scossone che D'Alema ha cominciato a dare, in quel congresso, ai rapporti tradizionali all'interno della sinistra, si potrebbe ricordare un'altra esperienza, quella dell'Union de Gauche in Francia. Nel 1981 Mitterrand andò al potere con un ambizioso programma "di sinistra" e alla guida di una coalizione che comprendeva anche Bertinotti, pardon, volevo dire Marchais, allora capo dei tostissimi comunisti francesi. Il primo governo dell'era Mitterrand era un governo che annoverava anche alcuni ministri comunisti e una quantità, superiore a quella modica, di socialisti massimalisti. Ne vennero fuori nazionalizzazioni a tutto spiano e grande espansione della spesa pubblica. In meno di due anni ci fu una terribile reazione dei mercati e la Francia arrivò sull'orlo della débâcle finanziaria. Mitterrand, allora, su due piedi, licenziò il primo ministro, cacciò i comunisti dal governo e dal

la maggioranza, si sbarazzò anche dei rappresentanti dell'ala sinistra del suo stesso partito, spostò a destra l'asse politico del governo, e inaugurò un nuovo corso, da allora mai più abbandonato, di rigore finanziario.

Le situazioni sono molto diverse ma qualche analogia col caso italiano, forzando un po' le cose, la si può trovare anche qui. Non è forse vero che alcuni pensano di scaricare, prima o poi, Bertinotti e di spostare a destra l'asse politico della maggioranza imbarcando forze moderate ? Ma anche in questo caso bisogna ricordare che Roma, così come non è Londra, non è neppure Parigi. Le operazioni alla Mitterrand, infatti, si possono fare quando le componenti estremiste e massimaliste della maggioranza non sono molto forti, sono obiettivamente ghettizzabili, e c'è un assetto istituzionale (presidente forte, Parlamento debole) che aiuta. E allora ? E allora dobbiamo sapere che né la strada di un serio e solido accordo bipartisan (nonostante la sincera determinazione di D'Alema e Berlusconi) né quella del cambio di maggioranza appaiono facilmente praticabili nel nostro contesto.

Qual è allora lo scenario più probabile ? Lo scenario più probabile, purtroppo, è una ripetizione, di segno politico rovesciato, di schemi che abbiamo già conosciuto. Un tempo c'era la Dc, un partito che comprendeva al suo interno tutto e il suo contrario, alla guida di una coalizione altamente eterogenea, che si sforzava, senza perdere pezzi, di governare nell'unico modo possibile, trattando di continuo e su tutto con l'opposizione comunista.

Oggi c'è una maggioranza di sinistra divisa su tutto, a sua volta facente perno su un partito, il Pds, che, per governare, deve scontare forti tensioni e divisioni entro la tradizionale area di sinistra (col sindacato, con Rifondazione, con i cattolici di sinistra) e, come la Dc di allora, deve trovare punti d'incontro con l'opposizione. E esattamente come allora, alle manovre di coloro che, nella maggioranza, cercano la collaborazione dell'opposizione si contrappongono le manovre di chi ha interesse a sabotare ogni dialogo. E' una specie di coazione a ripetere della politica italiana. In questo sistema (e finché il sistema non cambia), per governare, bisogna "ammassarsi" al centro, e da lì intrecciare legami con l'opposizione senza perdere contemporaneamente il contatto con le proprie ali estreme. La principale differenza rispetto ai tempi della Dc è che allora l'Msi era fuori gioco (non faceva parte della maggioranza a guida Dc) mentre oggi Bertinotti è membro permanente effettivo della squadra nazionale.

Quando in un precedente articolo dicevo che il rischio per D'Alema è quello di trasformarsi a poco a poco nel tessitore di una nuova Dc, anziché, come egli giustamente aspira, nel leader di uno schieramento all'interno di una compiuta democrazia dell'alternanza, pensavo appunto anche a certi precedenti, a certi esiti non preordinati, non voluti, che hanno scandito la storia dei rapporti politici nel nostro Paese.

Che cosa si può fare per scongiurare uno sbocco che sicuramente sarebbe esiziale per il Paese? Sappiamo già per esperienza quanto paralizzante per i processi decisionali sia la configurazione di rapporti politico-parlamentari che ho sopra richiamato. La strada è stretta e in salita. Tutto dipende da come verrà giocata la carta delle riforme istituzionali. Se il forte e trasversale partito del ritorno alla proporzionale verrà sonoramente sconfitto, se non ci troveremo alla fine con pseudo-riforme del tipo "indicazione" del premier... sui manifesti elettorali (secondo una battuta attribuita a Cossiga), se insomma vareremo una riforma vera e seria, che completi la trasformazione dell'Italia da democrazia consensuale o proporzionalistica in democrazia maggioritaria, allora sarà stato raggiunto lo scopo. Lo scopo non può che essere quello di dare anche all'Italia quei due particolari "beni pubblici" che le democrazie maggioritarie, in versione britannica o francese poco importa, usualmente forniscono: un forte ra

fforzamento dei poteri dell'esecutivo e la drastica, e sottolineo drastica, riduzione dei poteri di veto dei gruppi politici minori. Non bisogna stancarsi di ricordare, a questo proposito, ai tanti amanti del parlamentarismo all'italiana, che le democrazie maggioritarie, proprio in virtù della loro configurazione, hanno il doppio vantaggio di essere trasparenti (si sa sempre, in ogni momento, chi governa e chi fa l'opposizione) e di essere più efficienti (sotto tutti i profili: rapidità delle decisioni, controllo sulla spesa pubblica, ecc.) delle democrazie proporzionalistiche o consensuali. Bisogna ammettere però che questo esito, per le ragioni dette, non è molto probabile.

L'altra possibilità è quella di ritornare, dopo tanto rumore e tanti furori, al punto di partenza: con la solita melina al centro, la solita confusione dei ruoli e delle responsabilità, la solita convivenza forzata tra estremisti e moderati, la solita Italia insomma. Solo che ora, a differenza di venti o trent'anni fa, non ce lo possiamo più permettere. Tanto il capo della maggioranza quanto il capo dell'opposizione sembrano averne chiara consapevolezza.

Basterà ciò a salvarci dal nostro passato?

 
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