PRIVATIZZATI IERI, GIGANTI OGGI
Il treno di Stato è andato in pensione, a Pasquetta. Naturalmente non in Italia, ma in Gran Bretagna. Dal lunedì dell'Angelo - quando l'ultimo vagone pubblico è arrivato al capolinea del suo viaggio da Londra al cuore della Scozia - non c'è più un solo convoglio nelle mani della British Rail.
Si tratta, probabilmente, dell'ultima grande impresa del governo conservatore. Portata a termine subito prima delle elezioni politiche del mese prossimo che, stando ai sondaggi, finiranno per consegnare nella mani dei laburisti il governo di sua Maestà.
Che non si tratti di un'impresa da poco è evidente. In soli quattro anni, il premier britannico John Major è riuscito a far passare una privatizzazione che sembrava impossibile, sia per la dura opposizione dei laburisti, sia per lo scetticismo dell'opinione pubblica. L'obiettivo è stato raggiunto dividendo British Rail in tre parti: la Railtrack, proprietaria degli impianti fissi; le Roscos, le tre aziende che possiedono le locomotive e i vagoni; infine le venticinque linee in cui è stata suddivisa l'intera rete britannica. Ognuna delle tre parti è stata privatizzata separatamente: il governo ha appaltato le linee ai privati, che pagano l'affitto alle Roscos per l'uso dei treni e il pedaggio per i binari e stazioni alla Railtrack, collocata in Borsa a Londra. I frutti di questa privatizzazione si vedranno negli anni a venire. Mentre un bilancio fondato sulle cifre è possibile per la madre di tutte le privatizzazioni britanniche: la cessione ai privati della British Telecom, fortemente voluta, tredici anni fa
dal governo di Margaret Thatcher. Qui le cifre esistono e, com'è noto, sono ampiamente positive.
L'alienazione da parte dello Stato del monopolio telefonico è stata accompagnata da una serie di ferree regole e limitazioni decise dalla Oftel, la locale authorithy. In questo caso, la golden share c'è. Ed è un'azione unica posseduta dal governo, mentre il 100 per cento è detenuto da 2,3 milioni di azionisti. La funzione della golden share britannica è di semplice garanzia, nel caso di un tentativo di scalata ostile nei confronti della società. Ma, in questi 13 anni, non è stata mai esercitata, né il Bt, né in nessun'altra azienda privatizzata. Il vero punto di forza delle privatizzazioni britanniche, infatti, non è tanto nella golden share, quanto nei limiti che Bt è costretta a rispettare e che sono contenuti in un documento di ben 150 pagine. Tanto per fare un esempio: Bt è stata obbligata, sin dall'inizio, a far passare tutti i gestori telefonici concorrenti nella sua rete a una tariffa calcolata in modo da consentire a tutti gli operatori di poter realizzare dei profitti e, comunque, inferiore a quella
praticata da Bt ai suoi grandi clienti. Questa norma ha costretto la compagnia a massicci investimenti (24 miliardi di sterline negli ultimi dieci anni), ma ha permesso la liberalizzazione e la nascita di una vera concorrenza. Dalla quale hanno guadagnato un po' tutti. Oggi, infatti, i concorrenti sul mercato sono in tutto più di 200, tra fornitori del servizio globale (sette o otto), di servizi long distance (35) e di servizi locali. Per la gioia, soprattutto degli utenti del telefono. Tutti gli abbonati possono ora scegliere tra più operatori per fare una chiamata internazionale e il 40 per cento ha almeno un'alternativa anche per le telefonate locali. Le tariffe medie del telefono si sono dimezzate e la qualità del servizio, stimolata dalla competizione, è cresciuta (dieci anni fa ci volevano tre settimane per avere un allacciamento del telefono, oggi l'80 per cento delle richieste è evaso in giornata). Ma ci hanno guadagnato anche le casse dello Stato che ha incamerato: 47 miliardi di sterline tra i pro
venti della privatizzazione e le tasse sui profitti del gruppo in questi anni. Infine, ovviamente, ci ha guadagnato la British telecom che oggi si presenta sul mercato come uno dei protagonisti indiscussi.
(c.miss.)