ABOLIRE L'ORDINE DEI GIORNALISTI
Di Vincenzo ZenoZencovich
"Il Sole 24 Ore", mercoledì 8 gennaio. Nella sua lettera aperta, pubblicata sul "Sole24 Ore" di ieri, Franco Abruzzo elenca le ragioni per le quali egli è contrario al referendum sulla legge istitutiva dell'Ordine dei giornalisti e ritiene, anzi, che esso sia inammissibile (24). Il professor Giuseppe Morbidelli e io, per conto del Comitato promotore di quel referendum, abbiamo appena presentato alla Corte costituzionale una memoria che sostiene invece l'opposto: e cioè che non solo il referendum è ammissibile, ma anzi l'abrogazione dell'Ordine costituisce un significativo apporto alla realizzazione del principio costituzionale di libertà di manifestazione del pensiero. A ben vedere, gli argomenti addotti da Abruzzo sono una eccellente difesa degli interessi (legittimi, per carità) di chi è già giornalista e li vede messi in pericolo dall'abrogazione dell'Ordine. Ma mi permetto di dubitare che siano altrettanto validi per la difesa degli interessi della collettività. In primo luogo è il caso di osservare che
l'Ordine dei giornalisti è una peculiarità tutta italiana. La stampa è libera e può prosperare in tantissimi Paesi, vicini o lontani dal nostro , senza che i giornalisti o i governanti abbiano sentito il bisogno di creare un Ordine. Possibile che solo da noi sia tutelata la "dignità professionale, civile e morale dei giornalisti professionisti"? L'Ordine dei giornalisti, come del resto tutti gli Ordini professionali, ha storicamente la funzione di tutelare gli interessi economici della categoria, esercitando un monopolio sull'esercizio di talune attività e regolamentando l'accesso ad esse. Ora, se c'è un settore dove tale monopolio è particolarmente nocivo per la collettività è quello dell'informazione: il bene che ormai è diventato il più prezioso per le società moderne viene affidato in gestione esclusiva a taluni soggetti, con esclusione di altri, per il semplice fatto che abbiano superato un esame di abilitazione e siano dipendenti di un editore. Di certo la qualifica di giornalista non viene meno per il
fatto dell'abrogazione dell'Ordine: come ben sanno tutti coloro che operano nel settore, si è giornalisti per quello che concretamente si fa, no per la iscrizione a un Albo. La prova più evidente è rappresentata dai cineoperatori cui è stata riconosciuta la natura informativa dell'attività svolta e, di converso, dai dipendenti Rai che, non operando in strutture giornalistiche, hanno vista negata la applicabilità del contratto collettivo. La verità è che sotto l'ampio e generoso manto dell'Ordine vivono, con privilegi proprio non giustificati, un larghissimo numero di persone che non svolgono attività informativa e dunque, a rigore, non avrebbero titolo per fregiarsi del titolo. I giornalisti qualche ragione per dolersi ce l'hanno: perché deve essere abrogato il loro Ordine e non quello degli avvocati, degli architetti o degli psicologi? Ma qui un esame di coscienza non guasterebbe. Giacché occorrerebbe, anziché rinviare a messianici "sostanziali aggiornamenti", chiedersi in che modo l'esistenza dell'Ordine
dei giornalisti abbia contribuito, in questi 33 anni a migliorare la professionalità: a giudicare da come vengono abitualmente presentate sulla maggioranza della stampa italiana le vicende politiche e giudiziarie, i risultati non sono certo incoraggianti. Se poi andiamo ad analizzare, come è stato puntualmente fatto, la giurisprudenza disciplinare degli Ordini regionali e di quello nazionale, il dubbio sulla utilità di questo potere di controllo sugli iscritti è più che giustificato. Forse è il caso di chiedersi se, dopo questa ennesima dimostrazione del fallimento della pianificazione statale, non sia preferibile affidare al mercato e alla autoorganizzazione degli interessati il futuro della propria professione. Mi rendo conto che essere sottoposti, come categoria professionale, a un referendum non è proprio gradevole: ma per chi quotidianamente giudica (e spesso condanna) il prossimo dalle colonne dei giornali o dai teleschermi, il giudizio, popolare, che non riguarda, ovviamente, le singole persone, ma un
a istituzione rappresentativa, forse può servire a far comprendere cosa pensa la tanto decantata "opinione pubblica" su chi, spesso arbitrariamente, assume di esserne l'unico e autentico interprete.