UNA FIRMA CONTRO IL COSTO DELLA POLITICA
SOLDI PUBBLICI E ARROGANZA DEI PARTITI
di Massimo Teodori
Ho firmato assieme agli esponenti pannelliani la richiesta per promuovere un referendum abrogativo della nuova legge sul finanziamento pubblico ai partiti, approvata furtivamente se pure quasi unanimemente all'inizio dell'anno. Si tratta della norma che ripropone quel contributo pubblico ai partiti per 160 miliardi l'anno, già cancellata a furore di popolo con il referendum del 1993, e che è all'origine del poco commendevole mercato con cui sono stati distribuiti centinaia di milioni di miliardi e non solo ai partiti esistenti ma anche a singoli e a gruppi di parlamentari ingegnatisi a sfruttare al massimo le possibilità loro offerte.
Ho accettato di partecipare a questa nuova promozione referendaria per alcune ragioni. Prima di tutto perché la legge in vigore è profondamente immortale dal punto di vista politico in quanto carica sulle spalle di tutti gli italiani il finanziamento di tutti i partiti indipendentemente dalla volontà dei singoli individui. Ancora una volta è stato imposto a forza il principio che i partiti devono essere sostenuti dallo Stato, poco importa la loro consistenza e il favore che incontrano tra la popolazione, con l'aggravante che l'applicazione estrema del criterio proporzionalistico porta inevitabilmente alla proliferazione di gruppi e gruppetti al solo fine di ricevere denaro dallo Stato.
La politica deve essere sì finanziata, ma in una società che premia la responsabilità si rende più che mai necessario passare al criterio pubblicistico e panassistenzialistico a uno diverso che preveda che ognuno possa sostenere col proprio denaro il partito, il candidato o l'attività politica che preferisce, ovviamente affidando allo Stato una funzione regolamentatrice che stabilisca incentivi fiscali e limiti, soglie e controlli volti a garantire la parità dei punti di partenza.
Insieme a questa ragione di merito ve n'è un'altra strettamente collegata, per così dire, di metodo. Non si deve passare sotto silenzio lo sfregio costituzionale con cui il Parlamento ha reintrodotto una legislazione sostanzialmente identica a quella precedente con il trucco del cambiamento del titolo, così violando la norma che vieta di riproporre per almeno cinque anni una legge abrogata per referendum.
E ho firmato anche per un terzo motivo. La situazione presente è tale che alcuni poteri pubblici - in particolare la Corte costituzionale con l'appoggio della Presidenza della Repubblica e di una parte del Parlamento e del governo - tendono sempre più a impedire ai cittadini di pronunciarsi direttamente su questioni di grande rilevanza per la vita e la democrazia della nazione.
La recente vicenda che ha portato alla nullificazione di molti referendum provvisti delle dovute sottoscrizioni popolari e al tentativo in corso di far cadere i referendum residui stabilendo la data del voto nel periodo semiestivo di metà giugno, non deve lasciare inerti le persone pensose del futuro del Paese.
Quel che è in gioco, infatti, non è soltanto la possibilità di fare fuori leggi arroganti e antipopolari per via referendaria, come nel caso del finanziamento pubblico, ma la stessa salvezza di un istituto che ha consentito nell'ultimo quarto di secolo di fare esprimere i cittadini in alternativa alla partitocrazia. Tanti più il periodo che si annunzia è carico di incognite circa i diritti dei cittadini, quanto più è necessario preservare la possibilità di utilizzare strumenti alternativi di espressione e decisione capaci di fronteggiare eventuali grandi accordi e grandi maggioranza che realizzino leggi inciuciste sulla testa della volontà popolare.