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Partito Radicale Rinascimento - 8 aprile 1997
Da "La Repubblica" dell'8 aprile 1997 - pag. 11

NESSUN PRIVILEGIO AL PM

In Bicamerale non è in discussione l'indipendenza, ma la posizione davanti al giudice.

di Vincenzo Caianiello

Ha perfettamente ragione chi sostiene che un magistrato non perde il diritto di libertà di parola che hanno tutti gli altri cittadini. Ma è pur vero che un cittadino, se è magistrato, specie se sia riuscito a mettersi particolarmente in vista con i mass media o ad avere successo come autore di libri autobiografici proprio a causa delle sue funzioni, gode inevitabilmente di una posizione privilegiata nell'opinione pubblica che, quando parla, non può certamente distinguere se lo faccia come un comune cittadino anziché come magistrato. Si è perciò inevitabilmente portati a pensare che parli in quest'ultima veste, tanto più che altrimenti non ci si spiegherebbe perché egli riesca ad avere privilegiato accesso presso stampa e tv.

Non si può ignorare difatti che appena accade qualcosa che riguarda la giustizia ci si affretti a intervistare determinati magistrati (che poi sono sempre gli stessi che si proclamano rappresentativi dell'intera categoria, non sempre d'accordo con loro), noti all'opinione pubblica proprio in quanto tali. Del resto giustamente i magistrati hanno in passato protestato quando esponenti del governo avevano espresso critiche nei confronti di sentenze, respingendo fondatamente l'idea che, nonostante la carica, si potesse ritenere che essi parlavano da comuni cittadini. Le due parti in commedia non convincono più.

In base a queste premesse dettate dal buon senso, bisogna ancora ricordare che il principio della divisione dei poteri, che è il cardine degli Stati costituzionali e delle democrazie moderne e che esclude ogni commistione tra chi fa le leggi e chi deve applicarle, tende proprio a impedire l'interferenza di un potere sull'altro in occasione del loro concreto esercizio. Questo significa che, quando chi deve (soltanto) applicare le leggi, come il magistrato, si avvale della notorietà e della particolare presa sull'opinione pubblica - che gli derivano dall'essere titolare del potere giudiziario - per montare un movimento di opinione che ostacoli le scelte politiche di chi deve fare le leggi, è lo stesso principio della dicisione dei poteri che va a farsi benedire.

Ciò non senza considerare che questo tipo di operazioni potrebbe delegittimare l'intera classe politica, perché se essa si fermasse di fronte alle "piazzate" (ed è per questo che nella dialettica democratica deve essere apprezzata la fermezza e la serenità che sta dimostrando il relatore della Bicamerale) darebbe la sensazione di temere "il tintinnio delle manette" e quindi di avere scheletri nell'armadio.

D'altronde le proteste di questi giorni stanno facendo apparire in modo deformato il vero contenuto delle proposte anticipate dal relatore della Bicamerale, perché queste ultime tendono a distinguere, anche se ancora timidamente, il ruolo dei pubblici ministeri da quello dei giudici (un disegno questo che sarebbe possibile anche a Costituzione invariata, dato che questa nell'art. 107, ultimo comma, sembra addirittura presupporlo) senza minimamente prevedere che i primi vengano assoggettati al potere politico e quindi lasciando loro quella "indipendenza da ogni altro potere" come attualmente prevista. E' perciò sconcertante che, con la "provocatio ad populum", si voglia far credere che il nuovo assetto possa attentare alla indipendenza del pubblico ministero.

Se si è costretti ad alterare i fatti per galvanizzare ancora una volta la plebe giustizialista, questo significa che se ne vuole acquisire il consenso per conservare in realtà non l'indipendenza, bensì l'attuale posizione privilegiata del pubblico ministero presso il giudice. Una posizione che inevitabilmente nasce dalla loro contiguità che nessun Paese democratico conosce, perché contrario al principio di civiltà del giusto processo il quale esige che il giudice debba essere e apparire in posizione di assoluta terzietà rispetto alle parti.

Tutti sono liberi di manifestare in piazza, come previsto dall'art. 17 della Costituzione, ma quando ci riferiamo alle decisioni politiche, se i magistrati, come essi stessi riconoscono, devono essere considerati cittadini come gli altri, la loro categoria, che è numericamente composta di circa ottomila elettori, ha il diritto di parteciparvi confrontandosi, senza privilegi, con gli altri trenta milioni di elettori al momento del voto, senza avvalersi di una particolare qualificazione. Né crediamo che i primi possano contare sull'impegno con loro assunto dal capo dello Stato al congresso di Taormina di non firmare mai una legge che preveda la separazione tanto avversata, perché quell'impegno, se per caso vi fosse il titolo giuridico per essere mantenuto, riguardava l'eventualità di una legge ordinaria, mentre oggi ci troveremmo in presenza di una legge di revisione costituzionale.

 
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