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Partito Radicale Lorenzo - 12 aprile 1997
"Il Foglio", 12 aprile 1997 - Speciale scuola.

Allego qui di seguito tre articoli, alla cui stesura ho contribuito, pubblicati senza firma sul supplemento "Speciale Scuola" del "Foglio" del 12 aprile 1997.

Lorenzo Strik Lievers

1. L'ITALIA DISTRATTA E LA GRANDE OMOLOGAZIONE CHE SI AVVICINA.

Il fatto è così nuovo in sé, rompe a tal punto abitudini consolidate che molti ancora sembrano non coglierlo. Ma la realtà è che questa volta la Grande Riforma della scuola sta arrivando (salvo, s'intende, che non intervenga una crisi degli equilibri politici). Il governo dell'Ulivo la sta attuando; e per le vie più spicce, sembra. Non solo e non tanto, cioè, per la strada del confronto parlamentare, come si è fatto per la delega sull'autonomia, che è già legge: lo "Statuto delle studentesse e degli studenti", destinato a sconvolgere i rapporti fra insegnanti e studenti, Berlinguer ha annunciato di volerlo introdurre con atto amministrativo; e se è vero che la riforma generale dei cicli scolastici è ancora a uno stato di abbozzo, il ministro ha comunicato che anche qui intende attuarne immediatamente la sostanza per via amministrativa, attraverso una modifica radicale dei programmi (e già se n'è avuta un'anticipazione con la decisione sui programmi di storia).

Così, abituato da un cinquantennio di non governo democristiano sul settore e di sistematica inconcludenza che i dibattiti sulla riforma della scuola restano senza effetto, il paese rischia di trovarsi, fra distratto e sorpreso, di fronte a un fatto compiuto di straordinaria portata. Ma il punto è che se alcuni aspetti della trasformazione avviata appaiono condivisibili, molti altri risultano tali da aprire la strada a guasti irrimediabili. Sicché, se i liberali autentici di questo paese non porranno subito la questione tra le proprie fondamentali priorità politiche saranno corresponsabili, per omissione, di una svolta carica di pericoli, destinata a condizionare sulla lunga durata il futuro della società italiana.

Partiamo dal positivo. L'autonomia: grande occasione, se riuscirà a sburocratizzare il rapporto educativo e porterà a crescita di libertà e responsabilità - anche come senso della responsabilità - degli insegnanti. E potenzialità in questo senso ve ne sono, nel testo approvato. Lascia però perplessi, va detto, che contestualmente all'autonomia non sia stato istituito un serio sistema di valutazione delle scuole autonome; e che comunque non siano stati definiti strumenti efficaci per evitare che si degeneri in un caos nel quale non sia più garantita agli studenti, per ogni tipo di scuola, una sufficiente omogeneità di percorsi e di livello di apprendimento.

Ma un'altra innovazione rischia di essere quella davvero decisiva, tale da sovrastare e travolgere ogni altra; perché rappresenta un fattore devastante capace di minare il nucleo fondante stesso che fa di una scuola una scuola. Mi riferisco alla bozza di "Statuto delle studentesse e degli studenti", da leggere in combinato disposto con il progetto di legge sugli organi di governo delle scuole. Il suo senso in sostanza è quello di improntare tutta la vita scolastica e le relazioni fra studenti e docenti su una base in qualche modo "contrattuale", come di parti contrapposte, di cui ci si preoccupa di tutelare giuridicamente la più debole, gli studenti, contro le sopraffazioni dell'altra, gli insegnanti. E' chiaro che un criterio come questo, messo al primo posto, compromette in radice il rapporto educativo: che deve fondarsi sul dialogo, la comprensione e la responsabilità, appunto, educativa.

Così, tra l'altro, si prevede che gli studenti abbiano una rappresentanza pari a quella dei docenti, e insieme ai non docenti costituiscano la maggioranza, nel "Consiglio di autonomia", l'organo che "fissa gli indirizzi generali del progetto educativo di istituto"; e si stabilisce che possano intervenire - in modo dunque non solo consultivo - anche su materie come la programmazione didattica, la scelta dei libri di testo e i criteri di valutazione. Per contro, si riduce quasi a nulla, parrebbe, il peso del voto di condotta, ossia delle sanzioni disciplinari; chiunque intende con quali rischi di degrado nella vita delle classi. Insomma: si mina l'autorità-autorevolezza degli insegnanti, e se ne limita pesantemente la possibilità di esercitare la propria responsabilità professionale dando il meglio di sé (ci si meraviglia che fuggano dalla scuola in massa, e spesso fra loro i migliori?). Mentre si assegna un rilevante potere di condizionare le scelte didattiche agli studenti, che per definizione non hanno st

rumenti e capacità per decidere al meglio, in questo campo, nel proprio stesso interesse. (Come se, per "democrazia", si chiamassero i malati a co-decidere la terapia). Non può sfuggire, oltretutto, quali e quanti pericoli di derive demagogiche o senz'altro di strumentalizzazioni politiche tutto ciò comporti: immaginiamo un simile sistema di "garanzie" nelle scuole del 1977 o anche solo in quelle della "Pantera". Rischiano d'esserne travolte le garanzie di libertà d'insegnamento contenute nelle norme sull'autonomia, e il senso stesso dell'autonomia. Per non dire che c'è probabilmente chi punta sulla radicata maggior capacità di iniziativa delle organizzazioni studentesche di sinistra a fini di egemonia culturale.

Il risultato è quello di creare le condizioni per un drammatico peggioramento strutturale della qualità della scuola e dell'insegnamento. Come dire che, nell'ansia di assicurarsi il consenso degli studenti (c'è anche la proposta del voto ai sedicenni...) si minaccia in modo decisivo il vero e sostanziale diritto che agli studenti andrebbe garantito: quello a una scuola che sappia bene insegnare. Preparando, come dicevo, quella catastrofe sulla lunga durata per la società italiana che una degenerazione del sistema educativo-formativo reca con sé.

Un pericolo convergente di abbassamento della qualità può poi nascere da un punto nodale della proposta di riordino dei cicli scolastici: il carattere delle due classi destinate a sostituire l'attuale primo biennio delle superiori. Si tratta di uno degli aspetti in cui è maggiore l'ambiguità del documento di Berlinguer; e bisognerà naturalmente vedere come verrà sciolta. Ma la formulazione del testo è tale da poter fare intendere che si vogliano annacquare le differenze, nel biennio, fra i diversi tipi di scuola; andando cioè nella direzione del famigerato "biennio unico" che buona parte della sinistra auspica da un quarto di secolo. Significherebbe, di fatto, l'estensione per altri due anni della logica della scuola media. Altro che distruzione del liceo classico: a essere distrutta sarebbe tutt'intera la scuola superiore, ridotta, in tutti i suoi ordini, a soli tre anni. Ne deriverebbe un abbassamento anche del livello degli studi universitari. Ma prima ancora ne sarebbe compromessa la possibilità per i

giovani di acquisire quella capacità di approfondire, dunque di darsi un metodo di studio, dunque di apprendere cose anche del tutto nuove - la vera necessità prima nel mondo di oggi - per cui è determinante lo studiare a fondo, dai 14-15 anni, poche discipline omogenee tra loro nel metodo. Quel che si può ottenere appunto in scuole, come il liceo classico, caratterizzate da un proprio forte asse culturale, e che per definizione è impossibile fare in una scuola più o meno uguale per tutti, in cui dunque si studi un po' di tutto senza approfondire nulla. Si badi: come dicevo, la riforma su questo punto chiave Berlinguer ha annunciato di volerla anticipare immediatamente, senza un voto del parlamento, rivoluzionando subito per via amministrativa i programmi di tutti i bienni.

Capitolo fondamentale, quello dei programmi. Fa paura, a questo proposito, la leggerezza demagogica con cui si è sconvolto dall'oggi al domani lo studio della storia dedicando (anche nelle medie: con quale rispetto per un minimo di decenza pedagogica?) l'ultimo anno solo al novecento; con i rischi anche, da molti denunciati, di manipolazioni politiche. Ma si unisca questo all' appena avvenuta introduzione di nuovi programmi di storia per gli istituti professionali segnati da un'inquietante caratteristica: che in sostanza vi si detta anche un'interpretazione della storia. Alla quale i signori docenti e i signori autori dei libri di testo sono pregati di attenersi. Si aggiungano sintomi come l'emblematica circolare su Gramsci e quel che sopra s'è detto sullo statuto degli studenti, e ad aumentare il numero delle ore obbligatorie di scuola per bambini e ragazzi. Quella che si profila attraverso tutto ciò è la figura di un processo volto a istituzionalizzare nella scuola una gramsciana egemonia culturale; e, p

aradossalmente a inglobare la stessa autonomia in un processo di grande omologazione. E' l'altro grande motivo di preoccupazione che, insieme ai rischi di dequalificazione complessiva della scuola, sorge di fronte alle prospettive che sembrano aprirsi.

Dove e come trovare vie d'uscita se le cose davvero andranno in questo modo, le ambiguità saranno sciolte negativamente e nulla interverrà a fermare questi sviluppi? Si potrebbe pensare: si creeranno o potenzieranno scuole private di qualità, dove almeno chi ne ha i mezzi farà la sua scelta di libertà. Neanche questo, invece, sarà possibile, probabilmente. Se sulla parità ancora sono da sciogliere alcuni nodi, è chiarissimo comunque l'intento del governo: omologare al massimo le scuole private a quella di stato, legando la stessa palla di piombo (statuto degli studenti, ecc.) al piede di entrambe. Se degrado ha da essere, lo sia per tutti; e la scuola di stato non abbia lo stimolo di troppo efficaci concorrenti. Sempre, s'intende, in nome dell'uguale diritto di tutti. E ad ogni buon conto il disegno di legge sugli esami di maturità comporta norme di pesantissimo attacco alle scuole private.

Certo, quasi tutto, nelle riforme promesse o annunciate, è ancora allo stato di abbozzo. Nulla è ancora irreparabile. Un colpo di barra, in teoria, è ancora possibile; soprattutto se il governo fosse incalzato da un forte e serio dibattito. Se, appunto. Problema: ci sono, e dove sono - nell'opposizione, ma anche nella maggioranza - le persone e le forze capaci di comprendere che la battaglia per la serietà e la libertà nella scuola è una priorità non minore rispetto alle altre su cui si gioca il confronto politico in Italia?

2. SE LA SCUOLA DI STATO DIVENTA RELIGIONE

Bisogna dirlo alto e forte: quello che è in gioco nella gran trattativa in corso - tra governo, forze politiche e gerarchie ecclesiastiche - intorno alla questione della parità è lo scambio fra la possibilità di accedere a finanziamenti pubblici da parte delle scuole private e una loro rinuncia a una parte consistente della loro libertà. Alla libertà di essere "diverse" dalla scuola di stato; ossia, a ben vedere, alla loro stessa ragion d'essere.

Per rendersene conto basta leggere quella parte delle conclusioni della commissione nominata sul tema da Berlinguer su cui tutti i suoi membri hanno convenuto, nonostante il dissenso rimasto intorno alla nodale questione della nomina degli insegnanti nelle scuole non statali. Perché quella parte, con tutta evidenza, rappresenta oggi la base da cui la trattativa muove, per quanto in difficoltà si trovi il ministro, preso tra opposte pressioni provenienti dalla sua stessa maggioranza. Lo schema del ragionamento è presto riassunto. Allo scopo di eludere la chiarissima norma costituzionale per cui i privati possono istituire scuole "senza oneri per lo stato" si crea la bizzarra figura del "sistema pubblico integrato" in cui si comprendono a pari titolo tutte le scuole, statali o no, che facciano "servizio pubblico. Che significa? Che tutte devono avere un progetto educativo ispirato "ai principi affermati dalla costituzione come fondamento della comune identità nazionale"; ossia che facciano della costituzione

un'ideologia, una "religione" totalitariamente obbligatoria (fuori dal "sistema" dunque il monarchico, o chi critica il concordato, o l'idea di repubblica indivisibile e "fondata sul lavoro"). Devono poi avere le stesse forme di "partecipazione democratica"; dunque, secondo i progetti del ministro, essere tutte costrette al pari degrado prodotto da statuti degli studenti e consigli di autonomia con i docenti in minoranza. Possono sì avere diverse ispirazioni pedagogiche: ma a condizione che non ne faccia parte integrante e costitutiva un credo religioso (salvo, si suppone, la "religione della costituzione").

Risultato. Si negherebbe più che mai il principio della libertà di scelta educativa dei genitori. Si ucciderebbe in gran parte la scuola privata in quanto scuola libera (non autonoma!), come anche la costituzione la definisce. Si estenderebbe alle scuole private la Grande Omologazione. Si toglierebbe alla scuola di stato la concorrenza stimolante di scuole "diverse". E si violerebbe ugualmente la norma costituzionale che - finché non la si abroga - vieta oneri statali per scuole comunque istituite da privati. Complimenti vivissimi.

3. L'AUTONOMIA EMENDATA

Critici come siamo della politica di Berlinguer, dobbiamo dargli atto di un aspetto positivo della sua azione. Anche perché apre spazi di libertà nella scuola che è importante siano conosciuti.

E' noto - ed è assai grave - che una sentenza giuridicamente scandalosa della Corte cosiddetta costituzionale ha impedito che il paese fosse chiamato a quel grande confronto-riflessione sul tema della libertà di insegnamento quale sarebbe stato il referendum sul "modulo" dei tre insegnanti nelle elementari promosso dai Club Pannella. Ma è sfuggito ai più che grazie a emendamenti alla delega sull'autonomia caldeggiati proprio dai pannelliani (ne aveva scritto Strik Lievers su questo giornale), presentati in parlamento da Pera e Aprea e, appunto, accettati dal governo, su questo terreno si sono fatti passi avanti di grande portata.

Sul tema specifico del referendum, intanto. E' passata la norma per cui l'autonomia organizzativa delle scuole "si esplica liberamente anche mediante superamento dei vincoli in materia di organizzazione e impiego dei docenti"; e a ogni scuola si assegna un "organico funzionale d'istituto" in base al quale provvedere alle necessità didattiche. Questo significa che le elementari che lo vorranno potranno scegliere di organizzare la pluralità dei docenti non con la formula dell'attuale "modulo" ma anche altrimenti, ad esempio con il sistema praticato in gran parte d'Europa dell'insegnante centrale affiancato da insegnanti di materie specifiche. La sostanza di quel che il referendum chiedeva.

Sempre grazie a quegli emendamenti, è stato sancito che l'autonomia deve attuarsi nel rispetto della libertà di insegnamento, del diritto ad apprendere e della libertà di scelta delle famiglie (principio, questo, introdotto così per la prima volta nella nostra legislazione). E al principio si è data concretezza dichiarando che le scelte metodologiche e didattiche delle scuole sono "da adottare nel rispetto della possibile pluralità di opzioni metodologiche". Questo significa una cosa semplice ma decisiva per la qualità dell'autonomia: che nelle scuole divenute autonome le maggioranze non dovranno avere il potere di imporre la propria linea pedagogico-didattica alle eventuali minoranze, che il progetto educativo di istituto potrà essere "plurale; come, anche questo va riconosciuto, ben chiarisce il progetto della maggioranza sugli organi collegiali, e mai era stato scritto nei precedenti testi legislativi sull'autonomia. Insomma: se i regolamenti delegati rispetteranno queste indicazioni, si avrà un'autonomi

a non da soviet ma con una crescita reale di libertà. Agli insegnanti, ora, usare di questi diritti.

 
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