Radicali.it - sito ufficiale di Radicali Italiani
Notizie Radicali, il giornale telematico di Radicali Italiani
cerca [dal 1999]


i testi dal 1955 al 1998

  RSS
mar 20 mag. 2025
[ cerca in archivio ] ARCHIVIO STORICO RADICALE
Conferenza Movimento club Pannella
Segreteria Rinascimento - 21 maggio 1997
Da "Il Corriere della Sera" del 21 maggio 1997 - pag. 33

ROSSI L'ANTIMORALISTA DALLE MANI PULITE

Controcorrente Ritratto dell'economista del "Mondo" a vent'anni dalla morte. Fustigava i politici, i sindacalisti e gli industriali assistiti. Ma sempre con humor

Pubblichiamo una testimonianza inedita su Ernesto Rossi, l'economista del "mondo" che viene ricordato oggi in un convegno all'Umanitaria di Milano, per iniziativa della Fondazione Bauer e del Circolo Rosselli di Firenze.

L'incontro dal titolo "Il coraggio dell'intransigenza inizia alle 17,30 e prevede le testimonianze di Alberto Cavallari, Lucio Ceva, Arturo Colombo, Alessandro Galante Garrone, Raffaele La Capria e Paolo Sylos Labini, con la presidenza di Massimo della Campa.

L'autore de "I Padroni del vapore" e "Settimo: non rubare", espressioni ormai entrate nel linguaggio comune, aveva dichiarato guerra all'Italia dei "furbi": in questa categoria includeva praticamente tutte le categorie sociali, dai grandi industriali agli operai, dai sindacalisti ai latifondisti, ai generali ai bottegai. Tutti "furbi", secondo Rossi: destinati però a ritrovarsi alla fine, come si è visto, in ginocchio.

Di Raffaele La Capria

Quando conobbi Errnesto Rossi, intorno alla prima metà degli anni Cinquanta, io ero uno di quei giovani intellettuali che per amore delle grandi e nobili cause il riscatto dell'intera umanità dalle sofferenze e dal bisogno

apparteneva alla numerosa tribù della "sinistra", e pur non essendo iscritto al partito comunsta, e pur coltivando mille dubbi incompatibili con una vera militanza, ero in qualche modo condizionato da quella ideologia. Ernesto Rossi chiamava quelli come me gli "utili idioti" e lo scriveva e spiegava in mille modi. Io sapevo benissimo quello che pensava, e perciò davanti a lui ero sempre pieno di complessi e di reticenze. Ma a poco a poco, frequentandolo, quando entrai a far parte della famiglia dopo aver sposato la figlia di una sua sorella, e abitando nello stesso palazzo, mi ero abituato ai suoi modi e avevo cominciato a conoscerne meglio il carattere. Tutti ricordano il viso di Ernesto, quella sua aria da moschettiere pronto a battersi in un duello, i suoi occhi vivi e pungenti il suo pizzetto da hidalgo, e quel modo battagliero di confrontarsi con le idee quando discuteva. Ma io ricordo soprattutto il suo riso, a volte infantile a volte beffardo, e la sua passione per gli scherzi. Ne architettava di cont

inuo a spese degli amici e dei parenti, e a volte anche io ne sono stato vittima. C'era in lui come lo spirito di Peter Pan che saltava continuamente fuori anche nei momenti e nelle situazioni più serie. A volte questo spiritello si impadroniva di lui e non riusciva a trattenerlo. Ci recitava, per esempio, la scena di quando a suo dire la moglie Ada, approfittando della sua condizione di carcerato, lo aveva stretto nell'angolo del matrimonio, lui che sempre nella recita sosteneva che di matrimonio non aveva mai voluto sentir parlare. Ada (che eroicamente volle sposarlo proprio quando fu condannato a 20 anni di carcere) veniva paragonata alla contadina che deve tirare il collo a un pollo, e lui stesso, Ernesto, si immedesimava nel pollo consapevole della fine che lo aspetta. La contadina costringe, sciò, sciò, sciò, il pollo in un angolo del pollaio, finché non riesce ad afferrarlo tutto arruffato e starnazzante per tirargli il collo. Bisognava vedere con che abilità di attore Ernesto, davanti agli occhi

ora divertiti ora sdegnati di sua moglie Ada, rappresentava la scena nella doppia parte della contadina e del pollo, finché Ada, ridendo anche lei, non gli diceva: "Fermati va', che sei tutto rosso e ti fa male agitarti cosi!". A me, che in quel tempo curavo i programmi culturali della Rai e dunque mettevo in onda le conversazioni dei vari collaboratori inviando loro pacchi di libri da recensire, combinò uno scherzo che mi fece piombare sulla testa una sfuriata di Aldo Garosci. Mi convinse a riferire a Garosci che Ernesto Rossi, conoscendo il suo grande amore per i libri, gli mandava a dire, vivamente, di restituirli tutti dopo averli recensiti. "Ma come si permette" strillò Garosci dall'altro lato del filo. E io non appena mi accorsi della gaffe e balbettai delle scuse, immaginai il riso diabolico di Ernesto. Infatti quando gli riferii quello che era avvenuto, gongolava, letteralmente gongolava, e mi ripeteva: "Hai visto com'è permaloso?". Scherzi di questo tipo andavano anche oltre le sue intenzioni, tanto

che una volta provocò la rottura del fidanzamento del nipote con una ragazza alla quale, contraffacendo la voce, aveva fatto credere di essere una rivale, o qualcosa di simile. E aveva perfino fatto una telefonata interurbana, per rendere più credibile la cosa. Non vorrei con questi ricordi far credere che io vedessi Ernesto solo così, come un tipo ameno, un po' eccentrico, perché è vero proprio il contrario. Normalmente lui era per me la nobile figura che tutti conoscono e anche il fisico imponente contribuiva a rafforzare questa impressione. Poi all'improvviso vedevo un lampo nei suoi occhi, e tirava fuori quella sua aria di "presa per il bavero", allegra, spavalda, giovanile. Ma anche quando era occupato in serie questioni politiche o di civile impegno, mai lo abbandonavano l'ironia, a volte feroce, e l'indignazione sacrosanta. Questa ironia veniva fuori nei nomi e nelle definizioni che affibbiava a chi prendeva

di mira, e "Utili idioti", oppure "Padroni del vapore" e simili, sono formule che il tempo non ha cancellato, e anzi hanno lavorato negli animi e nelle coscienze, come certe trovate pubblicitarie ben riuscite. Fu lui uno dei primi ad individuare con "Non rubare", ben in anticipo nei tempi, il sistema molto italiano che poi fu "tangentopoli", e quale critica al fascismo, anzi all'oscura Italia nella quale il fascismo aveva affondato le radici, è stata più efficace di quella contenuta in "Una spia del regime"? Con quel libro Ernesto Rossi aveva dato all'Italia non solo una documentazione di come un regime oppressivo riesce a stendere il suo dominio in ogni minimo settore della società soffocando ogni opposizione e corrompendo le persone, ma anche un libro paragonabile per la forza implicita dell'analisi a "1984" di Orwell, un libro che nonostante sia solo un documento senza nessuna pretesa letteraria potrebbe ben figurare in quell'elenco dove rifulgono i nomi di Koesler, di Silon, di Spender e di tutti gli

scrittori che negli anni Trenta denunciarono l'oppressione totalitaria, sia fascista che staliniana. Quel che più mi affascina nel modo di pensare di Ernesto, quello che lo sconvolgeva tutte le mie sistemazioni e ideologie, non erano tanto il suo pragmatismo politico e la sua ricerca di soluzioni ragionevoli e immediatamente applicabili, ma l'uso inusuale che lui faceva del senso comune. Questo suo senso comune che certo mi ha influenzato mentre scrivevo il mio libro: "La mosca nella bottiglia" non rassomigliava per nulla al buonsenso borghese e naturalmente meno che nulla al conformismo, ma era una sfida paradossale e vivace a quell'intellettualismo alto, e amministrato dall'alto, a cui tutti si sottomettevano per reverenza agli apparati e agli indottrinamenti dei vari concettologi. Contro questo intellettualismo generatore di ideologie di dominio si inalberava, coi suoi paradossi, Ernesto Rossi. Lui aveva per suoi maestri il pragmatico Salvemini e lo scrupoloso Einaudi, non amava invece l'astrattezza, e

non riuscì mai a capire l'idealismo crociano, nonostante le lezioni che pazientemente gli faceva in carcere il suo amico Riccardo Bauer. Dopo queste lezioni si sfogò con una vignetta ho dimenticato di dire che Ernesto trasformava spesso il suo humour in una vignetta, perché lui era un disegnatore satirico straordinario . In questa vignetta si vede in alto un signore, Benedetto Croce, circondato da angioletti svolazzanti. come api intorno a un fiore: sono i crociani, che si nutrono da un vaso con su scritto: "Concetti batteriologicamente puri". E a terra inginocchiato tra i maialini, davanti al truogolo della sporca realtà, c'era lui, Ernesto. La sua arma preferita era la provocazione, a me la rivolgeva spesso, a volte in modo scherzoso a volte sornione, come un gatto che attende il topo al varco. E per esempio mi ricordo di una volta che a tavola ci stupì perché pretendeva di dimostrare che la riproduzione di un quadro del Rinascimento da lui incorniciata e appesa al muro gli dava la stessa emozione dell'o

riginale. La sua dimostrazione ora non ricordo bene come fosse argomentata, ma ricordo che era brillante persuasiva, ironica, blasfema e tante altre cose insieme, e credo gli riuscisse così bene anche perché lui non aveva una grande opinione degli artisti, e soprattutto delle loro pose e dei loro atteggiamenti. Ma in realtà era lui un vero artista in tutti i sensi, anche nella politica. E se nel caso della riproduzione e dell'originale il suo paradosso era innocuo e non aveva conseguenze nella politica e nell'economia, dove Ernesto era un maestro, credo che avesse il potere di scompaginare parecchie idee ricevute, di scoprire parecchie soluzioni inedite insolite, o impensabili, che spiazzavano i suoi numerosi avversari. Dopo alcune cose da me scritte su Tempo Presente, non so perché, mi ero conquistato la sua fiducia come scrittore. Diceva con una punta di ironia che ero "ben agguerrito", e chissà se era proprio un complimento, ma prese l'abitudine di farmi leggere prima di pubblicarli qualcuno dei suoi famo

si articoli scritti per il Mondo. Mi diceva: "Leggi, vedi se c'è qualcosa che non va, e bada alla forma, perché io scrivo in fretta e ci bado poco". Non era vero, naturalmente, perché i suoi articoli avevano una forza polemica così forte che li rendeva compatti anche sintatticamente e dal punto di vista formale. Non c'era nei suoi scritti nessuna di quelle formule di tipo tecnico scientifico, altamente concettualizzate e generalmente importate, che oggi sono così alla moda. Il suo linguaggio era forse a volte risorgimentale o all'antica, ma aveva il profumo del pane appena sfornato, si rivolgeva a tutti ed era capito da tutti, perché Rossi credeva nell'efficacia della persuasione fondata sulla fiducia nella ragione umana. Quando scriveva i suoi articoli contro la prepotenza dei grandi gruppi economici e contro i governanti ad essi asserviti non si poneva mai come un moralista, ma come un analista della corruzione, sempre con i documenti alla mano. Per procurarsi le prove spulciava bilanci e conti con la pazi

enza e la meticolosità di un ragioniere, perseguitando con intransigenza ogni interesse particolare quando si poneva al di sopra o contro l'interesse generale. Il suo vocabolario era semplice: parlava di furberie e di ruberie, di magagne, di borse e borsaioli, di fumisterie e di aria fritta, di falsepersoneperbene e di ciarlatanidell'economia, e così via. Ogni tanto usava la parola "omino". L' "omino" era per lui il piccolo uomo comune sottoposto alle vessazioni dei vari poteri, burocratico, economico, politico, militare, e così via. Una volta gli proposi: "Lo leviamo questo "omino"? Può apparire una parola un po' deamicisiana". Ma lui, umilmente: "Per favore, lasciamolo". Ed aveva ragione, perché quell' "omino" era un simbolo della nostra epoca, ricordava Charlie Chaplin, che avevamo visto e applaudito in tanti film, era una rivendicazione pacifica, allegra e insieme rivoluzionaria del diritto di essere felici.

 
Argomenti correlati:
stampa questo documento invia questa pagina per mail