PER I SINDACI SERVE IL PREMIO DI MAGGIORANZAdi Francesco Rutelli
Sulle proposte di riforma della legge elettorale nei comuni in discussione in Parlamento, riceviamo e volentieri pubblichiamo.
Caro direttore, la legge per l'elezione diretta dei sindaci ha funzionato: tutti sono più o meno d'accordo. Ma se siamo ancora assai lontani da una vera autonomia delle città - altro che "federalismo" - visto che i poteri locali sono cambiati assai poco, il Parlamento ha perso l'occasione per aggiustare la legge per l'elezione dei sindaci in modo da renderla davvero funzionante. E il tentativo di ritocco legislativo - troppo tardivo - che in queste ore le Camere stanno compiendo rischia di produrre un effetto disastroso. Vediamo perché.
Il successo dell'elezione diretta dei sindaci ha generato situazioni inaspettate: in quasi tutti i casi i sindaci raccolgono molti più voti in assoluto delle coalizioni dei partiti che li sostengono; non di rado accade che un sindaco sia eletto al primo turno, senza dover andare al ballottaggio, ma che non disponga della maggioranza in Consiglio comunale perché i partiti che lo sostengono si fermano sotto il 50% dei voti. E' capitato in diversi capoluoghi di provincia a sindaci del centro-destra come del centro-sinistra, ed è una ben strana contraddizione: una legge concepita per dare stabilità all'amministrazione locale genera la più devastante instabilità nel momento stesso in cui i cittadini la applicano, scegliendo a maggioranza assoluta il loro sindaco. Per questo il Parlamento sta tentando - con colpevolissimo ritardo, ripeto - di modificare la legge in modo da assicurare il premio di maggioranza ai sindaci che vincano al primo turno (chi vince al secondo, lo otteneva già automaticamente, come è accadu
to nel mio caso al termine della sfida con
Fini).
Non so se il Parlamento ce la farà. Quello che mi preoccupa grandemente, è il "profumo di scambio" che aleggia in qualche corridoio di Montecitorio: noi vi diamo la stabilità dei sindaci, con il premio di maggioranza per chi vince al primo turno, voi ci date la cosiddetta elezione del "ticket", ovvero il sindaco affiancato dal vice sindaco.
In apparenza questa proposta suona molto "americana", in realtà è un ritorno sguaiato della Prima Repubblica e la fine della elezione diretta del sindaco. Per capirlo, basta vedere chi ha proposto l'elezione di sindaco più vice sindaco: quel Teodoro Buontempo che ha già messo in pratica il futuro sistema nella campagna delle elezioni a Roma, dove la coppia B&B passa il suo tempo a precisare chi dei due sia il "vero sindaco" e chi debba "tenere a bada" l'altro.
Ma non è tanto questione di conflitti tra persone: sarebbe ancora peggio il meccanismo istituzionale. La nuova forma del governo locale si basa infatti sulla responsabilità e sulla coerenza programmatica. Con l'investitura popolare si è puntato a superare frammentazione, indecisionismo e trasformismo.
Se in ticket funziona storicamente bene negli USA, è perché il sistema è bipartitico: presidente e vice sono espressioni diverse di un unico partito. In Italia, con un bipolarismo ancora instabile e almeno quindici formazioni politiche in campo, il "ticket" darebbe vita a un "consolato", a una diarchia in troppi casi paralizzante. Ma soprattutto riporterebbe in auge la spartizione delle candidature e la vecchia partitocrazia: se vuoi, poniamo, il sindaco di Milano, devi darmi almeno il sindaco di Genova, e così via lottizzando al "tavolo" delle forze politiche.
Insomma: una revisione delle norme elettorali si può fare a poche settimane dalle elezioni solo con un largo consenso, ma l'idea di ottenere quel consenso con un baratto così avvilente consiglierebbe addirittura di lasciar perdere. E, in questo caso, i miei colleghi sindaci che fossero eletti al primo turno ma senza maggioranza, saprebbero con chi prendersela.