di MARIO PIRANIda LA REPUBBLICA, 17 ottobre 1997
A BREVE termine non appaiono che i vantaggi del "trattato di pace" tra Prodi e Bertinotti. Il governo resta in sella con il plauso della maggioranza dei cittadini e il favore dei mercati. Riprende la marcia virtuosa verso l'Euro con l'apporto di quel parametro non scritto - ma forse piu' importante di tutti gli altri - che si chiama stabilita' politica. Non e' stato necessario rimettere in questione lo schema maggioritario, se pur imperfetto, su cui si articola l'impianto istituzionale. Si comprende, quindi, il compiacimento espresso dai principali attori della vicenda. In prospettiva, pero', gli effetti dell'accordo potrebbero incidere gravemente sulle relazioni sindacali come anche sul bilancio pubblico. Cominciamo dalla questione della spesa sociale. Il documento di programmazione economica aveva, in proposito, calcolato che, per non oltrepassare la media del '96-'97, il taglio indispensabile ammontava a 9500 miliardi.
LA Finanziaria presentata da Prodi alla Camera, per venire incontro alle obiezioni sindacali e anche alle proteste di Rifondazione, ridusse l'onere previsto a poco piu' di 5000 miliardi. A parte un aumento di contributi da parte degli autonomi per circa 1000 miliardi, al centro campeggiava la questione delle pensioni di anzianita' con l'intento di anticipare i tempi dell'entrata in vigore delle restrizioni contemplate dalla riforma Dini. In particolare si puntava ad allungare di uno o due anni l'eta' anagrafica per l' andata in pensione, che oggi e' di 53 anni per chi abbia almeno 35 annualita' contributive. Ma, nel tentativo di stemperare l'opposizione di Bertinotti, il presidente del Consiglio, nel suo discorso alla Camera, non solo casso' le voci che concernevano la Sanita' ma assicuro' che i provvedimenti sulle pensioni non avrebbero riguardato gli operai ed "equivalenti". Ora, il compromesso successivo alla crisi di governo sancisce che l'esenzione va riferita "anche al lavoro non operaio di pari qualif
ica, con analoghe condizioni di gravosita' del lavoro stesso sulla base di intese sindacali". E, cioe', indistintamente, a tutti i lavoratori dipendenti.
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E questo per varie e ottime ragioni. In primo luogo perche' - mentre fino agli anni Sessanta secondo una concezione social-classista, le categorie erano divise tra operai, intermedi e impiegati - dopo l'autunno caldo del 1969, sulla spinta egualitaria allora imperante, le separazioni vennero abolite e fu introdotto l' inquadramento unico: le qualifiche divennero puramente funzionali e applicate senza vetero- distinzioni a tutti i lavoratori. Solo un nostalgico e incongruo ritorno alla mitologia dell'operaio-massa poteva riesumare in piena epoca informatica le definizioni sessantottine e pretendere di tradurle in legislazione e contrattualia' correnti. In secondo luogo se non esistono piu', per le parti sociali, operai, intermedi e impiegati, come pretendere di distinguerli ai fini pensionistici? E come individuare "analoghe" condizioni di gravosita'? Un addetto al computer svolge un lavoro meno gravoso di un conducente d'autobus? Un tecnico di laboratorio si logora piu' o meno di un bancario allo sportello
o di un commesso che sta in piedi tutto il giorno? Chi scioglie gli interrogativi? E qui veniamo al terzo punto, quello che demanda il compito alle parti sociali e, in primo luogo, ai sindacati. Ma come si puo' pensare che questi tirino le castagne dal fuoco per far quadrare un accordo, realizzato alle loro spalle congelando, nel frattempo, proprio quelle trattative sul Welfare nel corso delle quali le parti sociali e l'esecutivo cercavano faticosamente di reperire quei 5000 miliardi? Oggi, secondo questa pelosa delega di responsabilita', mentre Bertinotti puo' farsi bello del suo risultato, le Confederazioni dovrebbero scegliere i lavoratori da salvare e quelli da condannare: si', tu si' e no, tu no! Vi immaginate Cofferati, D'Antoni e Larizza che giudicano e mandano: dentro gli autoferrotranvieri e fuori gli ospedalieri o viceversa? La risposta a questo punto e' evidente: tutti dentro e cioe' tutti i dipendenti di ogni ordine, grado e categoria, tranne i dirigenti, sono da considerarsi "equivalenti" ed egu
almente gravati dalla fatica del lavoro. Ergo: da questa parte non ci sono piu' i 3 o 4000 miliardi di risparmi previsti per la Finanziaria ne' le misure strutturali concordate con l'Unione europea per il patto di convergenza. Il governo e non i sindacati dovra' trovare l'ardua soluzione. Essa, peraltro, non potra' ripercorrere, come gia' si sente dire, la via imboccata a suo tempo dal governo Amato quando blocco' per un anno le richieste di andata in pensione anticipata. Se questo avvenisse i primi a esserne colpiti sarebbero proprio quegli operai entrati in fabbrica a 18 anni e che oggi, a 53 anni di eta' e 35 di contributi, assaporano il diritto alla pensione di anzianita'. Lo slittamento di un anno porterebbe il limite a 54 anni proprio per coloro attorno ai quali si e' sviluppata la contesa e che tutti hanno dichiarato di voler in modo specifico salvaguardare. Per sfuggire a questo assurdo potrebbe sorgere la tentazione di gravare la mano sugli autonomi, aumentando ancor piu' aspramente del previsto il
loro onere contributivo. In questo caso da una filosofia di tagli si ricadrebbe in quella degli aggravi fiscali. Le categorie autonome, gia' tartassate piu' delle altre in seguito all'introduzione dell'Irap e alle modifiche delle aliquote, avrebbero ben ragione di vivere una condizione del genere come una prova di grave insensibilita' sociale e politica del governo nei loro confronti.
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Vedremo con la Finanziaria come questi dilemmi saranno affrontati. Veniamo ora all'altra follia, la legge per la riduzione dell'orario legale a 35 ore. Le inoppugnabili contestazioni mosse ieri dall'editoriale di Eugenio Scalfari e dall'intervista di Bruno Trentin hanno fornito ampio materiale di riflessione per i lettori di "Repubblica". I due autorevoli osservatori, di fronte all'assurdita' della cosa, sembrano credere che la legge sara' affidata per la sua stesura alla concertazione delle parti sociali e, quindi, ricondotta alla razionalita' di un indirizzo che faciliti flessibilita', occupazione e produttivita'. Lo spero anch'io ma con ottimismo non cosi' scontato. Non solo perche' le assurdita', come l'esperienza recentissima dimostra, non costituiscono una remora per Rifondazione, ma anche perche' la concertazione sindacale rappresenta esplicitamente per Bertinotti e Cossutta una prassi da abbattere. Essi cercheranno, dunque, di far passare il progetto di legge, ricattando la maggioranza, cosi' come lo
hanno inteso nell'accordo con Prodi. Una legge, quindi, non di puro indirizzo ma ragolatrice dell'orario legale. Questo a tutt'oggi e' determinato da una lontana legge del 1923 che lo fissa a 48 ore. Gli accordi contrattuali intervenuti da allora lo hanno portato a 38-39 ore, con pattuizioni che hanno, nel contempo, regolato pagamento e modalita' dello straordinario. Nel frattempo e' stata approvata una direttiva europea che limita a 48 ore complessive (straordinari compresi) l'orario globale. Il "pacchetto Treu" in discussione, prima della crisi, doveva, tra l'altro, recepire quella direttiva che definiva l'orario legale in 40 ore, con incentivi per le aziende che lo avessero ridotto. L'intromissione di Rifondazione ha buttato tutto per aria. Le preoccupazioni dei sindacati e della Confindustria riguardano in particolare i contratti collettivi per il prossimo quadriennio che stanno andando ora in discussione. Essi dovrebbero basarsi sulla politica dei redditi e sul principio della concertazione tripartita.
In altri termini: avendo il governo nelle sue previsioni economiche fissato un tasso d'inflazione che oscilla per i prossimi quattro anni dal 2,7 fino all'1,6, gli aumenti salariali dovrebbero parametrarsi a questi tetti, con l' aggiunta degli incrementi di produttivita'. Poiche' si calcola che se l'orario legale passasse a pari salario da 48 a 35 ore, l'aumento del costo del lavoro risulterebbe a regime pari a 10-12 punti, ne risulta che per i futuri contratti ogni possibilita' di aumenti, compresi quelli derivanti dalla produttivita', sarebbe annullata in partenza. La politica dei redditi e la concertazione si troverebbero prive di contenuto. Ancora piu' gravi le conseguenze per il Sud dove, dalla fine dell'anno - per effetto di un accordo firmato con Bruxelles dal governo Berlusconi-Lega - vengono meno le defiscalizzazioni con un aumento automatico di 6 punti del costo del lavoro, che si aggiungerebbe a quello derivante dalle 35 ore. A prescindere da questo fattore la Svimez nel suo ultimo bollettino ha
dimostrato che la legge voluta da Rifondazione avrebbe effetti irrisori sulla disoccupazione meridionale che nel migliore dei casi passerebbe dal 21,7 al 21,3 mentre nel Nord creerebbe tensioni acute sul mercato del lavoro obbligando a importazioni massicce di manodopera extra comunitaria (gia' oggi l'orario effettivo medio nel Nord Est e' di 44 ore settimanali). Siano, dunque, chiare fin da oggi le conseguenze potenziali di aver reimbarcato nel fragile battello della maggioranza non l'elefante ma il serpente a sonagli di Rc. La mancanza di una coerente cultura riformistica di governo puo' provocare nel prossimo futuro effetti assai piu' gravi e pericolosi di quelli che avrebbe avuto un rapido ricorso alle urne o la formazione di un governo tecnico per affrontare il passaggio di Maastricht, senza la miccia accesa del gruppo di dinamitardi di professione, capeggiati da Fausto Bertinotti, che, una volta tanto, avevano pensato bene ad autoescludersi da soli.