"L'Opinione" del 22 ottobre 1997, pag. 3di Paolo Pietrosanti
"Una legge ingiusta e' un codice che una maggioranza impone su una minoranza senza che anche la maggioranza ne sia vincolata. D'altro canto una legge giusta e' un codice che una maggioranza impone a una minoranza e che e' vincolante per entrambe." Martin Luther King scriveva queste righe nella sua fondamentale Lettera dal carcere di Birmingham, che il leader nonviolento indirizzo' ai suoi colleghi ministri di vari culti, e che certo si occupava della questione razziale negli Usa. La sua rilettura e' molto utile; anche per trarne alcune conclusioni.
Se al posto di "maggioranza" e "minoranza" volessimo leggere "ceto dominante" e "dominati", la logica delle parole evidentemente non muterebbe.
Dunque, la giustezza di una legge discende dalla sua cogenza, dal suo valere per tutti. Non da una rispondenza astratta a valori o principi, ma dalla forza del meccanismo, dalla capacita' di interpretare le forme organizzative della societa'. King afferma con molta chiarezza, e lo ha fatto in tutta la sua vita politica, la primazia della legalita', quale ambito in trasformazione e crescita dialogica, mentre la certezza del metodo (la legge giusta e' quella che vale per tutti) assicura la continuita' e il funzionamento non patologico dell'ordinamento.
Se guardiamo a quanto avvenuto in Italia rispetto ai quesiti referendari come usciti dal vaglio della Corte costituzionale, il fondamento stesso della legalita' risulta violentato e travolto.
Ma piu' evidente ancora - se possibile - la violazione del principio stesso di legalita' si e' palesata a proposito della legge sul finanziamento pubblico dei partiti politici italiani.
A parte e oltre l'essere stato reintrodotto il finanziamento di stato nonostante la debordante maggioranza popolare contraria nel referendum del 1993; a parte e oltre la circostanza per cui la nuova legge e' stata significativamente approvata di nascosto, quel che in primissimo luogo va sottolineato e' quanto avvenuto dopo: quanto sta avvenendo in questi mesi.
La legge, approvata a Natale scorso, prevedeva che i 160 miliardi sarebbero stati versati se almeno il 15 per cento dei contribuenti italiani avessero espresso una volonta' favorevole in sede di denuncia dei redditi. Allo scadere, il 30 giugno, del termine fissato dalla legge, soltanto il 3 o 4 per cento dei contribuenti avevano invece espresso il proprio consenso a che quella somma venisse versata ai partiti. La soluzione e' stata semplice: prolungare il termine di sei mesi.
In quel caso, con semplicissima chiarezza, il sistema dei partiti ha affermato che i termini fissati per legge valgono per tutti, ma non per i partiti medesimi, e per il sistema che compongono.
Oltre ogni altra valutazione di carattere politico o etico, oltre la impudicizia, oltre la immoralita' per di piu' ostentata, quella della normativa sul finanziamento pubblico afferma il suo essere normativa ingiusta perche' nega la sua stessa cogenza.
In Italia il finanziamento pubblico e' sub iudice; purche' il giudice si comporti come vuole il giudicato. Cioe' la classe, il ceto dominante nel paese.
Nell'antica Roma Repubblicana essere colpiti da un privilegio significava essere esclusi dalla societa': essere privi di legge comportava l'essere fuori, privi delle garanzie della legalita'.
Oggi, la parola privilegio e' sinonimo di condizione di vantaggio.
Paolo Pietrosanti
Consigliere Generale
del Partito Radicale Transnazionale