di Angiolo Bandinelli("Ideazione", settembre/ottobre 1997)
A trenta anni dalla sua scomparsa, avvenuta il 9 febbraio 1967,
quali sono i conti che il paese - il paese ufficiale - i democratici, i laici, i liberali e liberisti, forse persino i cattolici, debbono ancora fare con Ernesto Rossi?
Convegni e dibattiti vengono annunciati, omaggi doverosi e occasioni da cogliere per mettere sempre meglio a fuoco questa figura, nei confronti della quale l'Italia, ufficiale e non, latita, incerta se ignorarla o deprecarla, forse tacitamente vergognosa del proprio silenzio ma anche visibilmente impacciata per la sua presenza, scomoda in un paese che, oscuramente e istintivamente, tende alla cancellazione dei diversi e alla omologazione degli opposti, timorosa come è di non riuscire a tenere insieme - con la serena forza del giudizio critico e storico - le lacerazioni e le crisi, gli scontri e le dialettiche di cui si è nutrito e si nutre, e sarebbe strano se fosse altrimenti, il proprio cammino.
Noi speriamo che l'opportunità serva almeno a incidere sul cliché che si è venuto incrostando attorno alla sua persona: quello dell'antifascista intransigente, del polemista instancabile, dell'economista di vaglia, del Voltaire irridente, ma anche del maldestro cavaliere dell'ideale, imprevedibile quanto fanciullesco e dunque poco tagliato per la politica seria; insomma, del "caro Ernesto, così bravo, ma..." che troppe volte, fin da quando era in vita, abbiamo sentito ripetere. Un cliché composito, sfaccettato in tanti giudizi parziali, tra enfatizzazione e critica riduttiva: indizio - a noi pare - di un impaccio e di un senso di inquietudine se non di colpa, dinanzi a qualcosa che sfugge alla presa, ad ogni collocazione inadeguata se non ingiusta.
Certamente Rossi - per come lo ricordiamo, fin coi suoi tratti fisici e il suo muoversi - mostrava insofferenza nel giudicare ma anche nel farsi giudicare. Non che fosse (ma qui potremmo sbagliarci) uno che presumesse di sé con smodato soggettivo orgoglio: diremmo piuttosto che si muoveva nella convinzione che le idee, i progetti, le cose che diceva, che faceva, per cui lavorava, erano quelli giusti, buoni e validi a risolvere i problemi in discussione. Si dichiarava, in questo, un positivista, uno cioè che riteneva di aver individuato, e di saper usare, il senso vero, minimale ma esatto e incontrovertibile, della parola e del linguaggio: cosicché, una volta impostati correttamente i termini, la soluzione dovesse seguirne con stringente chiarezza. Diceva esplicitamente di non capire un accidente di filosofia, e che i concetti crociani gli parevano anguille, scivolosi alla presa, inaffidabili se non infidi. Con gli occhi dell'oggi, questa logica ci appare lontana anni-luce: eppure, per chi lo sentisse parlare
, o leggesse allora i suoi scritti, essa aveva uno smalto di verità inattaccabile. Si poteva cogliere, nelle sue parole, un insegnamento costante: e cioè che l'importante è non l'aver ragione, ma l'affrontare una questione con metodo rigoroso, innanzitutto sul piano morale: e accadesse poi quel che voleva accadere.
Ma questa moralistica durezza era anche il prodotto di una lucida riflessione che aveva scavato nel fondo della storia del paese, delle sue vicende prossime e remote, traendone insegnamenti e convinzioni. La sua visione dell'Italia era pessimistica. Sapeva, e si sforzava di dire, che per fare dell'Italia un paese passabilmente moderno e libero occorreva uno sforzo di intransigenza portato al limite. Che tale suo insegnamento sia stato poco raccolto e venga anzi disatteso ce lo dice la noncuranza, la diffidenza che la cultura italiana mostra per l'epistolario dal carcere, o quello che ne è stato pubblicato nel 1968 da Laterza, con il bel titolo di "Elogio della galera". E' un testo dei più affascinanti tra quanti egli ci ha lasciato, un vero livre de chevet, denso di pagine spinose e taglienti: nulla in esse che distragga dalla lotta, dal corpo a corpo con l'avversario: nulla, nessun affetto, nessun cedimento che sia spia di un affievolirsi della resistenza, di un arretramento o vacillamento fisico o morale.
Forse vi è incaponimento, in questa irriducibilità: ma noi vogliamo leggervi piuttosto (e ci si perdoni l'accostamento) qualcosa della céliniana solitudine del refrattario, che non intende abbandonarsi a quanto gli appare ipocrisia sociale ma contro di essa ha solo rivolta o, quando non altro, beffarda irrisione. Ricordiamo quanto ci raccontava la signora Ada, dei suggerimenti, delle raccomandazioni che le venivano fatte da persone anche amiche, perché sollecitasse dall'Ernesto, quando andava a trovarlo in carcere, una domanda di grazia a Mussolini, e dell'Ernesto che invece, nel baciarla affettuosamente al momento di accomiatarsi da lei dopo una di tali visite, le inseriva tra le labbra una pallina di sottile carta con l'ultimo messaggio clandestino per gli amici, i compagni, coloro che, ancora fuori del carcere, insieme a lui irriducibilmente lottavano...
Nella presentazione a questo epistolario, a nostro avviso il più bello e stimolante tra quanti le galere italiane hanno prodotto nel secolo, Ferruccio Parri (pensiamo sia sua la sigla F.P. che la conclude) avverte che le prime lettere sono di un "liberale e liberista", ma che "quando chiudiamo il libro non possiamo più considerarlo tale" perché, durante la prigionia, Rossi aveva scoperto "i problemi sociali". Sarebbe interessante una analisi critica, per la quale noi non abbiamo alcuna competenza, di tale giudizio, ma qualche osservazione al proposito vogliamo ugualmente permettercela.
E' certo che Ernesto Rossi si pose, e cercò di trovarne una soluzione, il problema che tutti assillava in quei due decenni tra la prima e la seconda guerra mondiale: come dare uno sbocco alla sfida posta dalla miseria delle masse e dal persistente pauperismo, e dunque come giungere ad una più equa redistibuzione delle ricchezze delle nazioni. E' l'assillo del tempo, per il quale Keynes diede una sua soluzione ma che produsse anche l'avvento del comunismo in Russia, e del fascismo in Italia: le tre "uscite" (cui si aggiungerà in Inghilterra, alla fine del secondo conflitto mondiale, il Piano Beveridge da cui trae origine l'odierno Welfare State) fornite dalla scienza economica e dalla politica alla domanda di giustizia sociale che saliva da un secolo di lotte delle masse operaie e contadine e che la Grande Guerra aveva reso ancor più acuta e impellente con la profluvie di promesse fatte ai fantaccini delle trincee per trascinarli all'ultimo, definitivo assalto verso la vittoria.
Dal carcere, Anche Rossi cercò di portare il suo contributo alla soluzione della quistione: e il succo delle sue riflessioni resterà in "Abolire la miseria", un libro dell'ultimo dopoguerra. Ma l'attenzione per questa problematica non offuscò mai in lui il determinato, fondamentale sentire di liberista - oltreché di libertario e di liberale - sempre attento alle necessità, alle regole, alle leggi del mercato.
Semmai, possiamo oggi lamentare in lui, nel suo modo di affrontare i temi del mercato e della concorrenza, la stessa debolezza scientifica e culturale che è in altri esponenti del liberismo italiano del secolo: tutti, più o meno, scarsamente abituati a trattare e analizzare il funzionamento di un autentico, aggressivo, davvero "demoniaco" capitalismo, per l'abitudine fatta al sistema italiano, chiuso e inquinato da mille forme di protezionismo e di assistenzialismo. E tuttavia dobbiamo a Rossi, mi pare, quel sarcastico giudizio sulla abitudine a "privatizzare i profitti e socializzare le perdite" con la quale le nostre classi imprenditoriali risolvevano le loro difficoltà. E sempre a lui dobbiamo le prime serie, durissime battaglie contro il corporativismo, le chiusure, l'ottusità politica, economica e sociale dei sindacati, e del partito comunista, nel difendere, sotto l'apparente conflittualità, le peggiori pratiche malthusiane e antiliberiste della controparte, purché andassero ad avvantaggiare e consolid
are i poteri delle burocrazie sindacali e, appunto, partitiche. Allora non erano ancora state messe in luce le peculiarità del "caso Italia" né, dopo la caduta dell'odiato fascismo, si potevano ancora individuare le latenti forme di continuità tra il paese nuovo e il vecchio regime. Ma il nocciolo dei problemi che rendono oggi esasperante se non impossibile la costruzione di forme di maggiore libertà economica era già stato da lui colto, come da pochi altri solitari. Nonostante possibili e forse inevitabili errori, insomma, Rossi fu un liberista di razza (e questo dovrebbe quanto meno evitare che anche della sua immagine, come è toccato ad altri liberali o socialisti del suo stampo - a partire da Silone - vengano fatte celebrazioni e commemorazioni che non possono non essere, sul piano culturale oltreché morale, indebiti accaparramenti).
Un altro testo vorremmo raccomandare a chi vorrà cercare di cogliere il senso dell'insegnamento rossiano: questa volta parliamo del "Manifesto di Ventotene" scritto a due mani con Altiero Spinelli (o forse tre, essendo il terzo - nel caso - Eugenio Colorni). Un vero "Manifesto", almeno quanto l'altro assai più famoso, e polemicamente dettato anche contro di quello. Le sue pagine sono una critica vigorosa, serrata, anticipatrice, della crisi dello Stato-nazione, quella che è stata di nuovo denunciata un decennio fa come crisi dello Stato fiscale e che oggi travaglia drammaticamente i paesi d'Europa, posti in difficoltà dal loro Welfare di fronte alle sfide del mercato globale. Rossi (a quanto pare, le parti economiche del libretto sono di suo pugno) indica nella cultura e nelle politiche del corporativismo pansindacale il rischio maggiore cui gli Stati andavano incontro, un corporativismo che avrebbe avuto nei partiti di sinistra, divenuti forze di governo e dunque non più internazionalisti, i maggiori, perti
naci difensori. E' lo sviluppo di un neo-nazionalismo che Rossi prefigura e che il tempo ha confermato: il che rende ancor più amaro il fatto che non un corso universitario venga oggi dedicato a queste pagine, di cui non esiste nemmeno una edizione critica sorretta da adeguato commento. Invece di promuovere convegni e celebrazioni un po' a caso, non sarebbe meglio riprendere in mano un testo così attuale?
Nel tentativo di sfatare la sciocca leggenda costruita sui commenti cui abbiamo accennato, per i quali il "caro Ernesto" non sarebbe stato, in verità, tagliato per la politica, vorremmo fare qualche considerazione, lasciare qualche non inutile appunto. Il primo riguarda il momento della nascita del Partito radicale, nel 1955: quando proprio Rossi sollecitò l'adesione al costituendo partito di personalità e forze estranee al cerchio un po' chiuso degli amici del "Mondo" e della sinistra del Partito Liberale, i quali pensavano di promuovere la nuova formazione confidando sulle loro forze e la loro cultura; per quanto la simbiosi fosse destinata a breve vita, sicuramente il progetto rossiano mostrava più lungimiranza politica (e più ricchezza di speranze) che non l'altro.
Due altri episodi ci dicono quanto lucida e concreta fosse la sua visione delle cose: il primo è l'opposizione alla strumentale criminalizzazione di Piccardi per il suo, vero o presunto, antisemitismo, criminalizzazione voluta da quegli elementi che intendevano liquidare il partito in vista del centro-sinistra lamalfiano; il secondo episodio è la sua partecipazione attiva alla prima Marcia pacifista e antimilitarista promossa da Aldo Capitini. Gli ambienti liberali e radicali vicini a Rossi si ritrassero inorriditi da quel che sembrava un inaccettabile cedimento alla politica filosovietica dei comunisti e ai loro tentativi di appeasement; Rossi capì che il pericolo non sussisteva, solo che si fosse mantenuta saldamente la barra sulla discriminante dei valori di libertà, mentre la nascita di un movimento pacifista "occidentale" non poteva che essere benefico per gli sviluppi della politica internazionale e anche interna.
Un ulteriore ricordo riguarda gli ultimi tempi della vita di Rossi, quando egli cominciò a riavvicinarsi al Partito radicale ora rappresentato e diretto dall'esiguo manipolo pannelliano dopo lo sfascio delle sue classi dirigenti. Morì, Rossi, il 9 febbraio del 1967: l'11 di quel mese si sarebbe tenuta in un teatro romano la prima manifestazione pubblica dell'"Anno Anticlericale" promosso da quel manipolo, come prodromo della campagna per il divorzio che già appariva nell'aria. Rossi aveva accettato di presiedere la manifestazione. Purtroppo, quei giovani non poterono altro che, sgomenti, accompagnarne la bara e commemorarlo. Avrebbe dovuto essere un loro leader. E' restato il loro mai dimenticato maestro.