Negli anni successivi, con investimenti totalmente autofinanziati (in particolare con la destinazione a ciò, anziché all'attività di partito, del finanziamento pubblico assegnato al PR) Radio ha Radicale ha costruito una rete nazionale che ha reso accessibile il servizio a oltre il 75% della popolazione - con standard qualitativi di ottimo livello. Il tutto, fino al 1993, gratuitamente.Negli anni, il servizio prodotto da RR, ha dimostrato di "avere un mercato" fino ad essere riconosciuto come vero e proprio servizio pubblico che lo Stato si è impegnato ad assicurare per legge. Insomma, al concetto di pubblicità dei lavori parlamentari è stata riconosciuta la necessità, doverosa, di una adeguamento "tecnologico".
Nel 1993, perdurante l'impossibilità o l'incapacità da parte della RAI, il Governo su richiesta del Parlamento istituì la convenzione con un concessionario privato per la trasmissione radiofonica delle sedute parlamentari. La gara conseguente fu vinta da Radio Radicale, che negli anni '95,'96 e '97 ha così percepito 10 miliardi annui (8 al netto dell'IVA) per l'identico servizio svolto gratuitamente per i precedenti 19.
Con tutta evidenza la cifra di 8 miliardi è ben al di sotto del valore di mercato di questo servizio, la cui qualità è sempre stata unanimemente riconosciuta. Radio Radicale è in questi anni cresciuta, tanto nella struttura tecnica che in quella redazionale, anche per ottemperare con assoluta puntualità e qualità agli impegni contrattuali assunti. Contemporaneamente ha garantito la trasmissione dei principali eventi politici ed istituzionali e costruito una archivio sonoro di valore storico e culturale incommensurabile.
Sic stantibus rebus, però, il venir meno della convenzione per la trasmissione delle dirette parlamentari (scaduta il 21 novembre) decreta la fine di Radio Radicale. Dopo vent'anni di investimenti, dopo avere inventato e consolidato un servizio che ha ottenuto un riconoscimento e una valorizzazione, l'azienda Radio Radicale dovrà chiudere.
Se a soppiantarla fosse un altro operatore in grado di garantire per il futuro lo stesso servizio pubblico - in termini di qualità ed efficienza - a costi minori per lo Stato e quindi per il contribuente, ovviamente, nulla quaestio. Il fatto che impone qualche ripensamento, però, è che tale servizio verrà trasferito per forza di legge all'ente di Stato, la Rai, che si approprierà del servizio e dei relativi introiti (più o meno esplicitamente quantificati nel calcolo del canone ha poca importanza).
Se si considera la attuale struttura dei costi di produzione Rai, è evidente che il solo servizio delle dirette parlamentari assorbirà ben più degli otto miliardi netti oggi versati annualmente dallo Stato a Radio Radicale.
Non solo, per fornire il servizio delle dirette parlamentari, la Rai si appresta ad effettuare un investimento di decine di miliardi per la realizzazione di una nuova rete ad hoc.
Appare perciò evidente, tralasciando tutto il resto, l'incongruità sotto il profilo della logica economica e finanziaria del trasferimento all'ente pubblico della trasmissione delle dirette parlamentari. Ciò confligge palesemente, inoltre, con tutti gli orientamenti pubblicamente espressi da tutti gli ultimi governi circa la necessità di un "ritiro" dello Stato dalla gestione diretta di aziende o di servizi pubblici, ovunque possibile senza detrimento per gli utenti. In questo caso, infatti, lo Stato amplierebbe il proprio raggio di azione "espropiando" di fatto il settore privato di una quota del mercato dei servizi radiofonici: con buona pace delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni.
Il passaggio al moloch statale, la Rai, del servizio fino ad oggi svolto da Radio Radicale, come detto, dovrebbe avvenire in ossequio, seppur tardivo, ad una disposizione normativa: ma si tratta di una norma 1990 il cui contenuto è ormai obsoleto rispetto agli orientamenti legislativi e di politica economico-finanziaria costantemente adottati negli anni seguenti da Governi e maggioranze parlamentari anche di diverso ed opposto orientamento. Rispetto al referendum che, nei fatti, chiedeva la privatizzazione della Rai e quindi del servizio pubblico.
Il rispetto inerziale e burocratico di una norma palesemente superata, finirà per avere come unico effetto sostanziale quello di privare il panorama dell'informazione italiana di uno dei soggetti pressoché unanimemente riconosciuto tra i più innovativi e pluralisti.