La notizia, diffusa da tutti i giornali, relativa ad un aumento della povertà in Italia è frutto di una falsificazione nell'interpretazione dei dati statistici (che ha le sue origini, come vedremo, in una distorsione di natura ideologica). Si è rilevato che nel 1997, rispetto al 1996, il numero delle famiglie povere è passato dal 10,3% all'11,2% del totale, e se ne è tratta la conclusione che la condizione, in termini assoluti, di questo 0,9% di famiglie in più sia peggiorata. Il dato, così proposto, sembra inconfutabile. Tuttavia, se esaminiamo attentamente il criterio utilizzato per definire la condizione di povertà, ci rendiamo conto dell'errore interpretativo commesso. La soglia di povertà è data da un valore del reddito pari alla metà del reddito medio pro-capite. Coloro che si trovano al di sotto di tale soglia sono inseriti nella fascia di povertà. Ora, la misura statistica utilizzata non comporta affatto, contrariamente all'interpretazione dominante offerta dai media, un peggioramento della condizion
e dei più svantaggiati. Tutt'altro. Poichè il reddito è quello medio, e poichè il PIL da un anno all'altro è aumentato, l'interpretazione più corretta è che le famiglie dell'ultimo decile hanno avuto una crescita del reddito reale inferiore alla crescita del reddito medio, o che hanno avuto un reddito identico all'anno precedente, non che hanno peggiorato la loro condizione in termini assoluti. Cioé, l'indicatore utilizzato, il reddito medio, comporterà sempre l'impossibilità del raggiungimento della tartaruga da parte di Achille (a meno che non si realizzi una distribuzione del reddito fortemente egalitaria). Argomentiamo tale affermazione con un semplice esempio: supponiamo che un paese sia composto da 10 abitanti, e che, da un anno all'altro, il PIL di tale paese raddoppi, passando da un valore di 100 ad un valore di 200 (a prezzi costanti). Nel primo anno erano poveri tutti coloro che possedevano un reddito pro-capite inferiore a 5. Infatti la metà di 100 è 50, che, diviso per il numero di abitanti, 10,
comporta un reddito medio pari a 5. L'anno successivo, con un PIL assoluto pari a 200, la soglia di povertà è pari a 10 (la metà di 200 diviso 10, il numero di abitanti). Dunque, tutti coloro che nel secondo anno hanno conseguito un reddito pari a 9 vengono inseriti nella fascia di povertà, anche se la loro condizione in termini assoluti è nettamente migliorata, passando, ad esempio, da 4 a 9. Con il risultato paradossale che coloro che avevano un reddito pari a 6 nel primo anno non erano inseriti nella fascia di povertà, mentre coloro che hanno un reddito pari a 9 nel secondo anno vi vengono compresi. Qual è allora il vizio insito nell'interpretazione prevalente? Che si confonde il grado di uguaglianza nella distribuzione del reddito con le variazioni del reddito in termini assoluti. Quei dati ci dicono che la distribuzione dei redditi si è leggermente "sgranata", non che la condizione degli "ultimi" è in massa peggiorata. Le suggestioni (e le distorsioni) ideologiche egalitariste hanno colpito ancora.