di Franco venturini /
corr.sera / 29/07/
Ci risiamo. Oggi a Lampedusa come ieri a Otranto, e più che mai dopo la tragedia di Genova , l'immigrazione clandestina divide gli italiani in buoni e cattivi, in fautori della solidarietàe razzisti impenitenti, in teorici dell'accoglienza e militantidell'espulsione.
I cinque cadaveri della Lindarosa parlano il linguaggio della pietà, ci dicono con il loro sacrificio emblematico che anche i diseredati aggrappati alle nostre coste devono scuotere le coscienze. Ma se al dibattito dei valori e dei sentimenti è giusto non rinunciare, la prima emergenza che i clandestini pongono all'Italia al di là di quei cinque poveri corpi consiste nell'avento tardivo di una cultura dell'immigrazione: di una consapevolezzache senza rinnegare le categorie morali sappia riconoscere il loro complemento operativo, che riesca a conciliare valori etici e geoeconomia, che ai proclami di fede affianchi le irrinunciabili regole di una società multietnica.
Romano Prodi ha ragione, quando dice che ai clandestini non si risponde con le cannoniere. Nel Mediterraneo più che altrove i flussi migratori verso la ricca Europa sono ormai un fenomeno strutturale, destinato ad accentuarsi con la divaricazione crescente tra i livelli di benessere e i tassi demografici. Ma se le cannoniere non servono, se non basta una legge severa almeno sulla carta, allora all'Italia serve una politica. Quella politica del reale che fino a ieri si è insabbiata nelle lacerazioni etico-culturali della stessa maggioranza, e che ancora oggi fatica a prendere corpo.
E' forse inumana, è forse indice di xenofobia incipiente la programmazione numerica dei flussi di immigrazione ? Semmai è vero il contrario, come per fortuna riconosce il governo: soltanto una limitazione degli ingressi può promettere agli immigrati lavoro e dignità, integrazione e diritti. Sarebbe più alta, più morale, più democratica una politica delle porte aperte? Le risposte ci vengono da Le Pen in Francia, da Haider in Austria, dai sussulti neonazisti in Germania.
Ma se il filtro all'immigrazione è necessario, per fare una politica serve anche, e questa non l'abbiamo, una civiltà dell'accoglienza. Quando a Lampedusa scoppia una rissa per un panino ogni commento è superfluo. Quando nei nostri aereoporti il " TU " dato dalle forze dell'ordine risulta strettamente legato al colore della pelle , diventa palese un ritardo di educazione e di addestramento. Quando alla nuova legge mancano gli strumenti, quando sono rari i centri di raccolta attrezzati e le espulsioni decise spesso non vengono attuate, l'Italia lancia alla moltitudine degli aspiranti il duplice segnale sbagliato della sua durezza e della sua permeabilità.
Certo, una politica dell'immigrazione quando si devono sorvegliare migliaia di chilometri di coste. Anche per questo non bastano non possono bastare le cannoniere. Ma se in Italia un aggiornamento culturale prenderà piede come sembrano indicare i sondaggi , se capiremo che la nostra come tante sia diventando una società multietnica e che di questa controllata evoluzione la nostra economia ha bisogno, la politica dovrà ingegnarsi a fare la sua parte meglio di quanto faccia oggi.
L'Italia sconta una immagine permissiva derivante dalle leggi del passato. Ferdinando Camon ricordava con ragione ieri che la nostra TV può servire a correggerla, per esempio in quella Tunisia che rovescia su Lampedusa ondate di clandestini ignari.
L'Italia non è soltanto la meta agognata dei boat people nordafricani, balcanici o mediorientali. E' anche nel mirino dei mercanti di carne umana, organizzazioni criminali che speculano sulle disgrazie altrui e intrattengono rapporti sempre meno sporadici con analoghe bande operanti a casa nostra. Sui traffici dei nuovi negrieri albanesi la magistratura ha stilato di recente rapporti drammatici. Il "fronte interno" dell'immigrazione clandestina, dobbiamente crudele, deve essere (ma speriamo che lo sia già) un obbiettivo prioritario della lotta al crimine.
L'Italia discute da tempo una riforma del mercato del lavoro. Forse il sommerso aiuta l'occupazione. Di sicuro attira i clandestini, che sanno di poter contare su una domanda occulta se riescono a superare le barriere dello sbarco. La calamita, che nel caso degli immigrati è sinonimo di sfruttamento, va disattivata.
L'Italia, soprattutto, sa che senza "accordi di riammissione" che prevedano il ritorno dei clandestini nei paesi di provenienza, ogni legislazione restrittiva è destinata a fallire. L'intesa con l'Albania funziona, almeno parzialmente. Con la Turchia è aperto un dialogo, con il Marocco mancano soltanto le firme, la Tunisia invece collabora poco o nulla, malgrado gli aiuti decisi dal governo, ed è improbabile che la tragedia di Genova faciliti il confronto.
Nessuno si illude, in realtà, di poter bloccare l'afflusso dei disperati con la semplice minaccia del rimpatrio. Ma la nostra diplomazia e il nostro governo hanno un'altra carta da giocare, una carta che si chiama SCHENGEN.
Il caso italiano dimostra che i confini esterni dell'Europa non possono essere garantiti dalla politica di un solo paese. Le pressioni sugli Stati di provenienza dei clandestini, così come gli aiuti per convincere i loro governi troppo distratti o troppo interessati, devono portare il peso e il potere condizionante dell'intera Unione.
Potrebbe partire proprio da qui, la vagheggiata e mai realizzata politica estera comune dell'Europa.
Prodi ne faccia una battaglia, senza per questo rinunciare a rafforzare quelle trincee che mal ci hanno difeso a oggi.