DESTRA DI PIAZZA
di MASSIMO GIANNINI
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"MAI BIRRA e panini al numero 10 di Downing Street!", tuonava Margaret Thatcher alla Camera dei comuni nel giugno dell'84, negando ogni possibile tavolo negoziale tra il governo conservatore e i minatori di Arthur Scargill in rivolta. "Basta con questa paralisi nei trasporti, così non si può andare avanti!", gli fa eco 14 anni dopo Tiziano Treu, ministro per niente thatcheriano di una Repubblica in cui quasi niente continua ad essere "normale". L'Italia è di nuovo flagellata dagli scioperi. La Gran Bretagna ha avuto la Lady di Ferro, che li ha stroncati senza misericordia.
NOI abbiamo un governo di centro-sinistra che vorrebbe avvicinarsi al risultato, ma senza massacri sociali. E abbiamo una destra che, invece, le agitazioni e i malesseri li cavalca tutti.
La nuova ondata di conflittualità che si sta abbattendo sulla Penisola misura il livello di riformismo della politica. Era cominciata con la rivolta dei taxi romani, primo caso di rovesciamento di ruoli rispetto all'iconografia classica. Il tassinaro Carlo Bologna, lo Scargill capitolino, ha strillato no alla liberalizzazione come il vecchio Arthur, ma lo ha fatto da destra. Il Comune di Roma ha tenuto duro come la Thatcher, ma lo ha fatto da sinistra. Poi sono esplose le altre vertenze: i penalisti e gli autotranvieri, gli aeroportuali e i macchinisti.
Qui emerge l'anomalia italiana. Non quella di un ministro come Treu che - con un impeto "decisionista" di cui francamente lo si dubitava capace - precetta, invoca revoche, annuncia modifiche alla legge sugli scioperi. E nemmeno quella di una Cgil che si scontra con la Cisl, di un Cofferati che chiede più "sanzioni", rispetto a un D' Antoni che rilancia invece l'idea dell'arbitrato. In fondo, la sinistra di governo è obbligata dalla globalizzazione a fare dell'efficienza, del mercato, delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni il "nucleo duro" del suo riformismo. E pur con qualche ruggine massimalista e con frequenti dissidi interni, il sindacato confederale - ingenerosamente additato come il "vero ostacolo al cambiamento" - un po' di riformismo ha cominciato a praticarlo da un bel pezzo.
La vera anomalia è la destra. Cosa resta infatti tra le macerie di questa quotidiana "guerriglia" dei trasporti? Due immagini, soprattutto. L'algido Gianfranco Fini prima capo-popolo dei tassinari, poi Robin Hood dei tranvieri, che grida "Cofferati è contro i lavoratori!" e disvela l'anima "missina" cui lo costringe la sua base, nonostante i lavacri di Verona. E più ancora l'ineffabile Silvio Berlusconi che da Madrid conferma la sua visione posticcia e spagnoleggiante del liberalismo economico, e dice che le liberalizzazioni vanno fatte solo "adelante Pedro, con juicio".
Il Polo avrebbe una formidabile opportunità: trasformare in politica la vasta prateria dell' opposizione sociale alla sinistra. Ma è incapace di coglierla. Come già fece con i tax-day dei commercianti, cavalca ogni deriva protestataria con una rozzezza intellettuale di cui stavolta si è indignato anche Antonio Martino. Nel ceto medio e nella piccola borghesia terziarizzata c'è un disagio oggettivo che andrebbe intercettato, e aiutato ad evolvere dentro i confini di una ricomposizione dialettica di società, piuttosto che infiammato con la benzina del puro antagonismo di fazione. Ma la difesa strumentale delle rendite corporative, delle rivendicazioni settoriali e dell'italico "tengo famiglia" non è un progetto politico. Per essere credibile, anche la destra esige una rigorosa coerenza riformistica. L'anomalia è che quella italiana non ne dispone. Per la semplice ragione che non è riformista, ma populista e statalista nella versione finiana, opportunista e affarista in quella berlusconiana.
La cultura di mercato, per la destra, è un puro gadget, un "usa e getta" elettorale. Quando il Polo ha governato nel '94, non una sola azienda pubblica è stata alienata. Il Cavaliere-premier arrivò al punto di raccontare una balla in diretta tv: "Non cederemo la Stet, nemmeno la Thatcher ha privatizzato le telecomunicazioni". Peccato che proprio la vendita di British Telecom sia stata il fiore all'occhiello della Signora Maggie. Sempre a Roma, due anni dopo, la destra ha lottato contro la privatizzazione della Centrale del Latte. Oggi si schiera con i tassisti e contro le liberalizzazioni, tradendo un antico riflesso del consociativismo democristiano: la concessione delle licenze non è mai funzionale alla logica della domanda e dell'offerta, ma è "usata" come merce di scambio politico e di consenso sociale. Oggi, in Parlamento, ostacola le leggi che eliminano gli steccati corporativi. Contesta la riforma del commercio, unica vera "liberalizzazione reale" insieme a quella della telefonia mobile. Sostiene i pr
ovvedimenti sull'istituzione di nuovi Albi: degli informatici, dei pranoterapeuti, dei croupiers. Piuttosto che chiederne l'abolizione, invoca nuovi Ordini professionali. Alla faccia dei cittadini-utenti.
Come ha scritto Giuliano Amato, "ci sono alcuni dinosauri della sinistra che ritengono ancora che la concorrenza sia una cosa di destra". Verissimo. Le lotte operaiste di Bertinotti, i paletti dirigisti di Cossutta, certe residue rigidità diessine, stanno lì a testimoniarlo. Ma almeno, a sinistra, c'è anche una numerosa avanguardia che vorrebbe uscire dal Jurassic Park italiano. La destra, che si professa "liberale", non ci prova neanche. Nel confuso Dna di Berlusconi e Fini sembra starci di tutto: la "Croce di Costantino" di don Sturzo e il "Manifesto del Partito fascista repubblicano" del novembre '43, il modello Ross Perot e il modello Juan Peròn. Paradossalmente, rinverdito dallo Spartacus dei tassisti, c'è posto persino per un po' di Scargill. Quello che manca, purtroppo, non è neanche la Thatcher, ma è proprio Adamo Smith.