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Conferenza Rivoluzione liberale
Partito Radicale Angiolo - 18 novembre 1998
Da "MondOperaio", novembre 1998, A.IV, numero 11
Nello stesso numero, articoli di Gianfranco Spadaccia e Valter Vecellio

(

RADICALI, NEL CUORE DEL CONTINENTE

Di Angiolo Bandinelli

Invitata autorevolmente ad entrare nel primo governo D'Alema, Emma Bonino ha rifiutato la prestigiosa offerta. Eppure, il suo posto di Commissario europeo dalle varie e disparate incombenze è ormai a termine, non si può certo prevedere chi saranno i Commissari europei nel prossimo quadriennio. Qualunque siano le ragioni di strategia politica che è pure giusto e ragionevole immaginare dietro il suo rifiuto di abbandonare il suo posto, Bonino l'ha motivato richiamandosi alla vocazione europea, federalista, del suo gruppo politico. Ineccepibile. Internazionalismo, europeismo, federalismo europeo sono il tratto saliente e distintivo dei radicali pannelliani nei confronti di qualsiasi altra forza politica, anche della sinistra, che ad un prestigiosissimo incarico al PE ha sempre preferito il più piccolo posto a Palazzo Chigi, a Montecitorio o nelle immediate vicinanze. Strasburgo è da sempre, per la classe dirigente italiana, un pensionato di lusso, se non un cimitero degli elefanti. Perché questa vocazione inter

nazionalista, anzi "sovranazionalista", di quel partito, o di una qualsiasi delle sottomarche che ne hanno via via raccolto l'eredità?

l congresso del partito radicale che si svolse a Torino nel novembre 1972 - dopo una drammatica campagna di iscrizioni che vide i pannelliani superare la quota dei mille iscritti indicati come la soglia minima di sopravvivenza al di sotto della quale i suoi organi dirigenti erano chiamati a dichiarare fallimento e sciogliere il partito - si chiuse su un documento di straordinari vigore e altezza. Esplicitamente, e per la prima volta nelle cronache del dopoguerra, un partito solennemente denunciava la irreversibile deriva del paese verso un vero e proprio "regime": un regime "corporativo, interclassista, autoritario, clericale, violento e corrotto", avente come architrave il partito della Democrazia Cristiana e come pilastri la "miriade" di "enti parassitari e corporativi" legati e sorretti da un meccanismo di "pubblicizzazione dell'economia" plasmato sulle strutture a ciò create dal fascismo, IRI ed ENI in testa. A questo regime e ai suoi poteri forti, che il documento puntigliosamente elencava, la sinist

ra, divenuta di fatto "omogenea e subalterna al disegno corporativo", faceva una opposizione puramente parlamentare e ideologica all'interno delle istituzioni peraltro maldisegnate ed esili, della democrazia politica, che non intaccavano l'eredità strutturale, ma anche ideologica e culturale, del fascismo.

Negli anni successivi, unico e isolato tra le forze politiche italiane, il piccolo partito avrebbe perfezionato e aggiornato la spietata, anticipatrice analisi denunciando come le forze di sinistra, e segnatamente il PCI - in particolare quello di Berlinguer, del compromesso storico e dell'unità nazionale - da "subalterne" al nuovo regime si venissero facendo sempre più pienamente sue corresponsabili, su un piede di sostanziale parità - anche gestionale - rispetto al partito cattolico.

La "scandalosa" puntualizzazione è del 1972, ma tutta la precedente prassi politica del piccolo drappello era stata, con le forme di lotta "partigiane" attuate, le sue incursioni ed iniziative dirette, il coinvolgimento di strati centrifughi della società in trasformazione, la sua ostinazione libertaria, le denunce e i processi, realizzazione di forme di lotta "alternative", capaci di proporre al paese valori, modelli organizzativi, principi, intransigentemente "alternativi", liberali e liberatori. Era, e gli ultimi avvenimenti ci aiutano a comprenderlo meglio, una scelta adeguata rispetto ad una analisi "strutturale" della società e delle istituzioni italiane, che non si fermava agli aspetti superficiali, di superficiale parlamentarismo ma l'affrontava sul piano più rigorosamente strutturale. Dimostravano, le sue lotte, la superiorità politica e culturale di un metodo di analisi di stampo liberale su quello, o quelli, allora correnti nella sinistra, legati formalmente ad una ispirazione marxiana, fondata s

ull'economicismo, o sui miti gramsciani dell'egemonia della classe di lontane origini gentiliane, in realtà tutti bloccati nel chiuso recinto di una estraneità e diffidenza profonda per le spinte e sollecitazioni provenienti al Paese da oltr'Alpe, e tutti in definitiva complici nella difesa di quella diversità italiana che faceva stupire gli osservatori stranieri del nostro paese.

Un episodio: agli inizi degli anni '60, tra le primissime iniziative avviate dal gruppetto che, assieme a Panella, aveva raccolto l'eredità, il nome, la ragione sociale e gli archivi dello sfortunato partito nato nel 1956, fu la creazione di una agenzia giornalistica quotidiana. Qwuesto foglio ciclostilato aveva una caratteristica, di riportare le notizie divise non tra quelle "italiane" e quelle "estere", ma per temi, senza tener conto del paese. Si parlasse di sindacati o di amosessualità (già allora) una notizia da new York equivaleva a una relativa a Montecitorio. Una scelta così piccola era, in realtà, rivoluzionaria (lo sarebbe ancora).

Il piccolo gruppo aveva una fortissima vocazione intellettuale. Nel corso delle interminabili riflessioni e discussioni, aveva maturato la convinzione che il vero problema era di fare aganciare all'Italia il treno europeo e internazionale. Erano coerenti con la storia dei liberali, dei meridionalisti, degli economisti alla Einaudi, dei laici, degli antifascisti esuli in Francia o in America, che sempre avevano indicato all'Italia questa necessità. Rifiutavano per questo i miti del neutralismo, del terzomodismo, di Bandung e del non-allineamento, del pacifismo ideologico, dell'antiamericanismo delle sinistra eredi del fascismo: quando venne vinta, da una splendida battaglia che vide loro alleati e partner determinanti i socialisti e i liberali, un giornale inglese scrisse che l'Italia veniva trascinata, riluttante come un mulo imbizzito, in Europa. La loro era una scelta di grande respiro: in una delle prima campagne elettorali, sempre neglia nni sessanta, affermarono che il vero "triangolo industriale" da te

nere in considerazione non era quello Milano-Genova-Torino, di cui discettavano gli economisti marxiani della sinistra, ma quello Bonn-Parigi-Milano.

Intuirono, insomma, che per correggere e battere i mali di quel regime che denuncnarono al congresso torinese dovevano far leva sull'europa, sull'apertura dei confini, sul liberismo delle idee prima ancora che della moneta.

Si capisce come le sinistre di quegli anni, e segnatamente il PCI togliattiano e posttogliattiano abbiano isolato e sostanzialmente combattuto il piccolo gruppo, inassimilabile alle schiere dei "compagni di viaggio" allora pullulanti. Nel corso dei decenni è toccato sempre alla schiera pannelliana il compito diforzare quei rapporti e tentare di coinvolgere, con ostinata perizia, le dirigenze dei partiti di sinistra in campagne e iniziative che mai, nella loro pragmatica parzialità, dimenticavano di essere campagne di "alternativa" al regime denunciato esplicitamente nel 1972.

dal divorzio, che portò per la prima volta in Italia, da tempi storici immemorabili, ingenti masse cattoliche a separare il loro comportamento politico dall'insegnamento delle gerarchie cattoliche e a dare a questo comportamento, grazie allo strumento referendario, uno sbocco vincente, alla battaglia per l'aborto o per l'obiezione di coscienza, arrivando giù alle campagne per la riforma della giustizia, per la ritenuta d'acconto, per il finanziamento pubblico dei partiti, fino a più recenti referendum liberisti. La politologia corrente interpretava quelle iniziative come settoriali, parziali, pragmatiche, eccetera, perdendo di vista o ignorando il loro carattere globale e alternativo;

: di qui, ad esempio, il rifiuto di demonizzare quelle ali della sinistra che di volta in volta, nei vari e certo poco fortunati centrosinistra, si prestavano alla collaborazione governativa con la DC. Tutte, indistintamente, le battaglie dei pannelliani furono, per i decenni di vita del partito e nelle successive trasmigrazioni del suo DNA in formazioni di altra denominazione (Lista Pannella, Partito radicale transnazionale, Movimento dei Club, ecc.) battaglie di "alternativa": ma il fraintendimento era necessario, per chi non avesse intenzione, al di là delle professioni di fede laiche, socialiste, persino liberali, di assumersi o condividere le responsabilità di un giudizio storico così drastico come quello che era a fondamento delle lotte radicali. Rifiutandosi di comprendere e accettare il nocciolo vero della logica pannelliana, i suoi critici evitavano però di approfondire le vere caratteristiche della società e delle istituzioni politiche del paese, contentandosi di analisi a livello politologico, par

lamentaristico, in definitiva superficiali e inadeguato. Quanto fosse incisiva l'analisi e la denuncia del "regime" lo hanno dimostrato le vicende dell'ultimo decennio, quando la terribile crisi, la disfatta e la liquidazione di una intera classe politica, i tentativi di riforma delle istituzioni, l'inserimento degli eredi del PCI ai vertici governativi non hanno impedito, come stiamo costatando, il pieno reintegro del vecchio, sistema dei "poteri forti" e il ritorno al proscenio del personale dell'epoca emergenziale, degli anni di piombo, compreso il Cossiga della vicenda Moro.

Ed è opportuno qui far anche notare, a convalida della bontà delle scelte anche organizzative messe in piedi dai pannelliani, che mentre una gran parte delle forze politiche via via venute alla ribalta con intenti rinnovatori, riformatori, nel quarantennio sono scomparse, inghiottite nello scontro o incapaci di plasmarsi e di inventare forme di resistenza, se non di attacco, capaci di tener testa alle trasformazioni della lotta politica, quel gruppetto di guastatori, di marciatori, di referendari, pur decimato e fortemente penalizzato, privato di essenziali strumenti di lotta come i referendum, sottratti all'agibilità democratica dagli interventi politicizzati (e di regime) della Corte Costituzionale, è ancora vivo ed attivo, proteso caparbiamente ad inventare sempre nuova occasioni di confronto dialettico, di lotta alternativa.

Verso una sola formazione politica, da sempre, i radicali mostrarono aperture e forte disponibilità ad alleanze e rapporti di collaborazione: fu il PSI degli autonomisti, dei Mancini e dei Fortuna, fino a quel partito craxiano a fianco del quale combatterono battaglie fondamentali, sia parlamentari che referendarie. In più di una occasione, a partire dal 1976, i radicali avviarono seri e organici contatti a livello elettorale e strutturale, con quel partito, ma questi sforzi vennero frustrati e respinti da quelle correnti che si definivano "di sinistra" e cercavano di stringere rapporti più stretti (i cosiddetti "equilibri più avanzati") con il PCI.

Anche le scelte compiute dai pannelliani nel corso degli anni '90 rispondono a questa forte esigenza di alternativa. L'accordo elettorale con il Berlusconi del 1994 si rese necessario nell'accertata convinzione che il PCI di Occhetto, con le complici responsabilità del presidente Scalfaro, stava portando il paese ad elezioni senza sbocco, che avrebbero visto non solo la vittoria, ma il dilagare della "gioiosa macchina da guerra" sostenuta dai poteri forti di sempre, naturali alleati del vincitore che potesse garantire loro il mantenimento dei vecchi, consolidati privilegi. Marco Pannella tentò di coagulare in forme politicamente possibili e concepibili quanto restava delle forze moderate, socialiste, laiche ormai allo sbando di Tangentopoli. Il suo estremo tentativo fallì, e non conta qui accertare per responsabilità di chi. Ma l'accostamento alle destre berlusconiane non divenne mai organico, ed anzi tentò in vari momenti di dotarle di un'ala sinceramente e credibilmente laica e liberale.

Il regime era, però, troppo forte e insieme timoroso per consentirlo e Pannella veniva via via emarginato, allontanato dalla pressione degli elementi più nettamente conservatori, del rassemblement messo in piedi da Berlusconi, mentre questi appariva legato, impotente, sempre più risucchiato indietro dalle proprie impossibilità e dalle proprie incapacità. Lentamente, questo che pure in un certa fase poté apparire come l'erede obbligato dei tentativi, maturati in ambito socialista, con l'iniziativa divorzista di Fortuna, con la leadership di mancini, presto stroncata da una alleanza di servizi "deviati" e aggressione comunista, con il grande sforzo craxiano di realizzare la "grande riforma" in senso più libertario, laico ed anche, perché no?, alternativista.

Ripercorrere con questo occhio, questa prospettiva, la lunga storia del paese nel dopoguerra ma tenendo anche presente il senso più profondo della "parentesi" mussoliniana, è necessario per capire fino al suo nocciolo profondo, al di là degli errori soggettivi, le manchevolezze dei singoli, gli sbandamenti tattici, che sono stati di volta in volta rigettati sul loro leader, l'essenza della lunga battaglia dei radiali e di Marco Pannella. Uomo di destra" storica, Pannella ha compreso bene che il grande, vero problema del paese era l'assenza di una sinistra laica e riformatrice, libertaria, e ha cercato in qualche modo di sopperire a questa mancanza, offrendo a quanti fossero disponibili quanto meno frammenti e ipotesi di alternativa, autentica e duratura, vorremmo dire "strutturale", nella scia e nell'insegnamento dei suoi sempre dichiarati maestri, i Murri e i Rossi, i Rosselli e i Terracini, i Croce e i Calogero, fino agli ultimi, i Carandini, i Pannnnzio del "Mondo" e i Silone e i Chiaromonte di Tempo Pres

ente".

 
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