diSalvatoreCarrubbaSebbene apparentemente animato da migliori intenzioni che non nel passato, il dibattito sulla parità scolastica rischia di restare ancorato a termini molto tradizionali, sostanzialmente riconducibili al vecchio dilemma se sia giusto o meno finanziare le scuole private, che sono poi in gran parte confessionali.
Messo in questi termini, è anche possibile che il risultato sia raggiunto, sia pure a prezzo di qualche mal di pancia nella maggioranza. Ma la posta in gioco non è quella, o non è solo quella di trasferire risorse pubbliche al sistema privato; ed essa dovrebbe riguardare tutti i cittadini sinceramente interessati a garantire i diritti di cittadinanza, a tutelare i contribuenti, ad assicurare la qualità del servizio pubblico, a consentire la libertà di scelta dellÆutente del servizio. E lo strumento per riuscirci cÆè: è il voucher, o buono-scuola, sorprendentemente (ma non troppo) sparito dal dibattito di queste settimane.
Il buono scuola, come ricorderanno i lettori degli appassionati interventi su questo giornale di Dario Antiseri, Lorenzo Infantino e Angelo M. Petroni, è uno strumento semplice, automatico e trasparente, proposto trentÆanni fa da Milton Friedman: esso non finanzia gli istituti privati, ma gli utenti, ai quali mette a disposizione dei »buoni che essi possono spendere per lÆistruzione dei propri figli nelle scuole che più aggrada loro. E chiaro quali siano i vantaggi del sistema, a parte la tutela della libertà di scelta: il principio dellÆistruzione pubblica non viene per nulla scalfito, ma anzi messo in condizioni di funzionare al meglio; e gli istituti privati sono esonerati da quello che si preannuncia in Italia, se le cose dovessero andare secondo le premesse di queste settimane, ossia il mercanteggiamento costante con le burocrazie ministeriali per essere riconosciuti da parte dello Stato. Un risultato che ridurrebbe enormemente il principio che si vorrebbe difendere, cioè quello della libertà di scelta
. In questo caso, infatti, sarebbero le burocrazie ministeriali, di nuovo, a dettare legge e a scegliere le scuole da convenzionare, quelle che più aggradano loro.
Da tempo, il voucher non è più un argomento di dibattito teorico, ma una realtà sperimentata in molte scuole: come in British Columbia, a Millwaukee, a Cleveland, dove ben il 63% dei genitori coinvolti si dichiara »molto soddisfatto secondo un sondaggio condotto nel 1997. Altri esperimenti per introdurre robuste dosi di concorrenza allÆinterno del sistema scolastico sono in corso nel Minnesota, nellÆEast Harlem, nel Massachussets, a Seattle: molti di essi riservano il sistema dei vouchers alle famiglie meno abbienti. E sempre negli Stati Uniti un complesso studio condotto dallÆuniversità di Chicago dimostra che le scuole migliori e meno discriminatorie in termini di reddito, razza e livello dÆistruzione dei genitori sono le scuole private, e quelle cattoliche in particolare.
Perché allora tanta sordità in Italia? Probabilmente, il sistema non piace proprio perché il principio che esso introduce non è quello della graziosa concessione da parte dello stato alle scuole confessionali, ma quello, davvero rivoluzionario, della concorrenza allÆinterno di un servizio pubblico così importante come lÆistruzione. Il sistema del buono scuola, infatti, imporrebbe agli istituti pubblici una severa disciplina per metterli in condizione di attirare gli studenti: e aprirebbe certo la strada a una imprenditorialità nel campo dellÆistruzione e della formazione, assai radicata negli altri Paesi, che infrangerebbe la tradizionale dicotomia italiana tra scuola laica e scuola confessionale. Per questo, laddove è stato sperimentato, o si è proposto di sperimentare, il voucher ha suscitato le netta opposizione dei sindacati degli insegnanti, delle burocrazie scolastiche, dei singoli istituti, cioè di tutti quelli che non vogliono scalfire lo statu quo. E probabile perciò che neanche a molti cattolici, o
a molte scuole cattoliche, il sistema del buono scuola piaccia troppo: perché, a quel punto, la concorrenza varrebbe anche per gli istituti privati. Coi benefici risultati che la concorrenza determina in termini di razionalizzazione della spesa, di qualità del servizio, di nascita di nuova imprenditorialità.
Qui sta il punto: è la ritrosia alla concorrenza che rende il nostro un Paese ancora ingessato e tuttora in coda alle classifiche internazionali sul grado di libertà economica. Il dibattito sulla parità scolastica consentirebbe ora, finalmente, di affrontare un capitolo così fondamentale dello stato del benessere in termini profondamente innovatori: è una sfida che dovrebbero cogliere sia i laici capaci di non attardarsi nelle ottocentesche difese del laicismo dellÆistruzione, che è un valore se è una scelta; sia i cattolici desiderosi di dimostrare che la loro battaglia è sacrosanta se non è condotta in difesa esclusiva dei propri interessi; sia, più in generale, le forze politiche impegnate a una riforma seria ed equa dello stato di benessere e ad onorare le solenni dichiarazioni sulla priorità dellÆistruzione. Questa diventa davvero la risorsa cardine per lo sviluppo se è messa a disposizione del cittadino, della sua capacità e volontà di farsi imprenditore di se stesso, della sua responsabilità. Se la la
sciamo solo in mano ai burocrati, la scuola italiana, pubblica o privata che sia, non riuscirà a cambiare. Come ammoniva quarantÆanni fa Luigi Sturzo: »Non lo Stato monopolizzatore dei titoli di studio; non lo Stato che impone programmi e limiti scolastici; non lo Stato che accentra tutte le scuole sotto unica disciplina; non lo Stato che mette pastoie al libero insegnamento, lo contrasta e lo degrada .
Perciò, come esorta Gary Becker, donÆt give up on vouchers, non arrendersi sui voucher.