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Conferenza Rivoluzione liberale
Poretti Donatella - 29 dicembre 1998
LE OMBRE SULLA CONSULTA
Referendum elettorale e pressioni politiche

Da IL CORRIERE DELLA SERA di martedi' 29 dicembre 1998

di Ernesto Galli Della Loggia

Quando, fino a pochi anni fa, era il Parlamento - cioe' i partiti - a nominare il consiglio d'amministrazione della Rai, a nessuno venne mai in mente di considerare quel consesso al di sopra delle parti, e dunque immune da critiche anche asprissime. Egualmente, a nessuno e' mai passato per la testa che il presidente della Repubblica, in particolare quello attuale, non si faccia guidare nei suoi atti piu' rilevanti da criteri politici: si potra' dire politici in senso ampio, non di partito, ma insomma pur sempre politici. Dunque opinabili e discutibili, almeno in un Paese democratico.

Stando cosi' le cose non si capisce davvero, allora, perche' la Corte Costituzionale - che per due terzi e' di nomina parlamentare e presidenziale e per un terzo designata dalle magistrature (anch'esse peraltro divise da decenni in correnti: correnti politiche anche queste, politicissime) - perche' mai, dicevo, la Corte Costituzionale dovrebbe invece, secondo la retorica ufficiale vigente, essere oggetto di una specie di rispetto totemico: per cui guai a criticarla se non con le riverenze preliminari del caso, il rispetto dovuto, la circospezione leguleia che non fa capire quasi niente a nessuno. Ma non e' certo con questi rimedi formali, con i pannicelli caldi della retorica e delle maiuscole, che potra' mai essere contrastato il sospetto - per molti la certezza - che la nomina politica della Corte la porti inevitabilmente ad emettere sentenze che tengano debito conto, specie su determinati argomenti, degli interessi degli attori politici da cui i giudici stessi promanano: per esempio come quando in questi

giorni essa e' chiamata a pronunciarsi sull'ammissibilita' dei referendum elettorali.

In realta' il sospetto di cui sopra avrebbe dovuto trovare il suo antidoto naturale nella Costituzione se, a loro tempo, i padri fondatori (che nella seconda parte della Carta, bisogna pur dirlo, approntarono una pessima architettura dei vari poteri dello Stato e dei rapporti fra di essi) non avessero commesso uno dei tanti peccati di imprevidenza che invece commisero. I modi per porre sullo sfondo, per esorcizzare, l'origine politica della Corte, cercando di affermarne invece l'effettiva neutralita' giurisdizionale, l'effettiva indipendenza, non era necessario andarli a cercare troppo lontano. Sarebbe bastato dare un'occhiata al funzionamento della Corte suprema americana e regolarsi di conseguenza.

Come si sa, anche la Corte suprema degli Stati Uniti, infatti, e' di nomina politica (presidenziale per essere precisi) ma cio' non attira quasi mai sui giudici sospetti di arrendevolezza o subalternita' ai desiderata della politica - come invece accade, e giustamente, da noi - grazie alla presenza di due regole. La prima e' la durata vitalizia della carica: nessun giudice americano ha interesse a fare un favore alla politica perche' la politica non potra' mai ricambiarglielo. A differenza di quanto avviene in Italia (con qualche lodevolissima eccezione: voglio ricordare almeno quella dei presidenti Baldassarre, Caianiello e Conso), negli Usa la politica non potra' mai nominare un ex giudice costituzionale senatore o deputato, presidente di un ente pubblico, della Rai o di qualche authority, semplicemente perche' un giudice costituzionale americano non diventa mai ex, resta giudice tutta la vita. Potra' essere misogino, radicale, integralista, qualunque cosa, ma lo sara' di suo, mai per compiacere una parte

che domani potrebbe tornargli utile.

Il secondo potente antidoto alla subalternita' della Corte americana verso la politica sta nel carattere pubblico delle discussioni che si svolgono al suo interno, assicurato di fatto dall'istituto della "dissenting opinion", cioe' nella facolta' riconosciuta al giudice che non si riconosce nella sentenza emessa dalla maggioranza di esternare le ragioni del suo dissenso.

L'esistenza di questo pubblico contraddittorio - sia pure indiretto ed ex post - implica, o comunque sollecita, sentenze ben argomentate e in generale una solidita' di indirizzo giurisprudenziale; e dunque, per cio' stesso, significa una notevole protezione delle decisioni della Corte da influenze esterne di carattere politico.

In Italia, invece, nulla di tutto cio': abbiamo giudici costituzionali a tempo determinato, e nessuna "dissenting opinion". In particolare abbiamo la situazione quanto mai illiberale di un organo schiettamente politico per la sua origine, come la Corte Costituzionale, i motivi dei cui deliberati sono di fatto, pero', sottratti a qualsiasi visibilita' dibattimentale ed ammantati della piu' completa oscurita'. Un organo inoltre i cui limiti giurisdizionali sono fissati dall'apprezzamento arbitrario del medesimo (vedi l'evidentissima usurpazione dei diritti del Parlamento operata dalla Corte a proposito dell'art. 513), e la cui giurisprudenza puo', in materia elettorale, stabilire tutto e il suo contrario, stabilire al medesimo tempo di non ammettere i referendum manipolativi (perche' sono manipolativi), ma neppure quelli abrogativi, perche' lascerebbero il Parlamento sguarnito delle procedure necessarie alla sua formazione. Puo' cioe' riscrivere a suo piacere la Costituzione, aggiungendovi un terzo e nuovo amb

ito di inammissibilita' referendaria (oltre quelli previsti nelle materie fiscali e dei trattati internazionali), ovvero puo', in proposito, ritenersi svincolato da qualsiasi precedente e quindi decidere ogni volta come piu' gli piace. Un organo i cui componenti possono essere legittimamente sospettati, insomma, di farsi docilmente pilotare nelle loro decisioni da chi li ha voluti a quel posto ed altri posti, magari ancora piu' importanti, puo' loro garantire in futuro.

 
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