(a seguito di questo articolo sono state presentate alcune interrogazioni parlamentari a Bindi e Letta)SOLE 24-ORE, Domenica 10 gennaio 1999
IL SAPERE NON RICHIEDE PAURE
di Cinzia Caporale e Gilberto Corbellini
Con un'ordinanza emessa il 30 dicembre scorso a quasi due anni dal provvedimento originale, il ministro della sanità Rosi Bindi ha prorogato di sei mesi il divieto di effettuare "qualsiasi forma di sperimentazione finalizzata anche indirettamente alla clonazione umana e animale". Secondo l'opinione di Bindi, il divieto, che non si applica alla clonazione di animali transgenici utilizzati per la produzione di medicinali salvavita, si è reso necessario perché la perdurante assenza di qualsiasi regolamentazione in materia potrebbe comportare sperimentazioni "senza alcuna garanzia di tutela della salute pubblica".
"L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento" e, inoltre, "la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica" (artt. 33 e 9 della Costituzione). La libertà della ricerca è dunque un valore costituzionale che, in spregio al più elementare rispetto del corretto rapporto tra poteri dello stato, viene limitato attraverso uno strumento giuridico forse più adatto ad intervenire nel caso di un'epidemia di morbillo o di peste suina. La sproporzione tra la rilevanza dell'oggetto della proibizione e la valenza normativa di una semplice ordinanza, fa riflettere non soltanto sulla scarsa considerazione della Carta fondamentale dello Stato, ma anche sulla pretesa di poter continuare ad eludere il dibattito democratico sulle biotecnologie ed una presa di posizione chiara ed univoca del governo in merito a questioni di grande rilevanza economica e politica, come il recepimento della Direttiva europea sulla biobrevettabilità.
Le decisioni unilaterali di Bindi non trovano giustificazione nella presunta "urgenza" del provvedimento, in merito alla quale occorre piuttosto domandarsi quali iniziative abbia assunto in questi due anni lo zelante ministro perché la clonazione e altre "emergenze" bioetiche diventassero oggetto di discussione pubblica e comunque approdassero in Parlamento o al Consiglio dei ministri. La percezione odiosa che i cittadini vengano governati come sudditi di nessun conto, incapaci di esprimere giudizi avveduti in materia di bioetica, non è poi certamente attenuata dal pretesto di un divieto spiegato in termini di "tutela della salute pubblica". La singolare intuizione che la ricerca fondamentale sia fonte di pericolo sociale non soltanto è priva di plausibilità storica, ma consegna all'immaginario collettivo l'idea di una comunità di scienziati intrinsecamente animati da cattive intenzioni e in malafede. Non di benevola premura dunque si tratta, ma del bisogno di arginare la ricerca non finalizzata, quella che
veleggia verso l'ignoto e che viola i confini del sacro, con l'effetto paradossale di censurare la scienza di base ma di consentire alcune delle sue applicazioni come la clonazione degli animali transgenici che producono medicinali salvavita. Quest'ultimo aspetto dell'ordinanza di Bindi, seppure condivisibile in un paese in cui l'industria biotecnologica non solo non viene promossa ma semmai sistematicamente ostacolata, risulta soltanto apparentemente contraddittorio rispetto ad un provvedimento che mira a "proibire": il bersaglio autentico, dettato dal timore tradizionale dell'imprevedibile, è infatti proprio la libertà di conoscere. Di qui l'esigenza di controllare in modo autoritario i fisici che progetterebbero la bomba, i chimici che distruggerebbero l'ambiente, i biologi che creerebbero mostri: mettiamo un carabiniere davanti al laboratorio.
Le "preoccupazioni" circa la rapidità del progresso scientifico, della cui inevitabile lentezza sarebbe casomai opportuno rammaricarsi, e la necessità di valutare le sue conseguenze applicative, non dovrebbero coincidere con l'imposizione a tutta la collettività dei preconcetti ideologici e delle opzioni morali di un singolo ministro, per quanto individualmente legittimi. Le ricadute culturali, etiche, sociali ed economiche della ricerca biotecnologica assumono infatti una tale valenza simbolica e fattuale da rendere necessario un confronto non pregiudiziale e il più ampio possibile che veda coinvolta in primo luogo l'intera cittadinanza. Se, come dimostrato da un'indagine del Wellcome Trust, i cittadini britannici capiscono la natura dei problemi bioetici e richiedono maggiori informazioni ed interventi educativi sugli sviluppi delle scienze biomediche, non si comprende perché i cittadini italiani avrebbero viceversa bisogno di una qualche forma di tutela paternalistica e non, molto più semplicemente, di ma
ggiori strumenti culturali. La promozione di una politica efficace di alfabetizzazione scientifica aumenterebbe infatti le opportunità, già esistenti, di un dibattito collettivo in grado di garantire scelte comprese e democraticamente condivise e insieme costituirebbe l'antidoto a decisioni elitarie ed autoritative. L'appello in questo senso lanciato dal segretario nazionale della CGIL Sergio Cofferati non ha ottenuto alcuna attenzione dalla comunità scientifica o dal mondo imprenditoriale, né, tantomeno uno specifico interesse mediatico a parte qualche intelligente eccezione, come quella di Enrico Bellone, direttore de "Le Scienze", nell'editoriale del numero di gennaio. Nessuna particolare enfasi sui mezzi di stampa hanno prodotto le dichiarazioni dei ministri Bindi e Letta a favore della Direttiva UE sui biobrevetti, quelle di D'Alema per un rilancio della ricerca scientifica, le "Linee guida per i test genetici" dell'Istituto Superiore di Sanità oppure, infine, il documento sui "Valori etici fondamentali
dell'industria biotecnologica" promosso da EuropaBio e Assobiotec.
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