Qualche giorno fa un ramo del parlamento ha approvato, praticamente all'unanimità (343 voti a favore, un astenuto e 5 contrari), una disposizione di legge che così recita: "Chiunque pubblichi, in tutto o in parte, anche per riassunto o a guisa di informazione, atti o documenti di un procedimento penale di cui sia vietata per legge la pubblicazione, è punito con l'arresto fino a 30 giorni o con l'ammenda da lire 30 milioni a lire 50 milioni". E' stata inoltre approvata una modifica al regime del segreto istruttorio, nel senso di vietare la pubblicazione di tutti gli atti del PM e della polizia giudiziaria fino alla chiusura delle indagini preliminari.
Molto semplicemente la Camera non vorrebbe fare altro che aumentare l'ammenda prevista per il caso di pubblicazione di atti che non possono essere pubblicati e lasciare per il resto invariata la pena detentiva (l'art. 684 c.p. prevede già l'arresto fino a trenta giorni ma in alternativa un'ammenda irrisoria che va da centomila a centocinquantamila). Vorrebbe inoltre stabilire, ragionevolmente, una volta per tutte, quali siano gli atti del procedimento penale che possono essere resi pubblici e quali no; fino ad oggi, infatti, il sistema era orchestrato in modo tale che fosse nella più totale discrezione del PM rendere pubblici atti delle indagini preliminari (atti quindi di parte, che non hanno alcuna pretesa di imparzialità né di veridicità).
Tutti sanno che la sistematica violazione del segreto istruttorio è rimasta sempre impunita, nonostante esita già una norma che punisce chi lo viola. Mi pare dunque perfettamente ragionevole che il legislatore voglia "ribadire" tale divieto, tenuto soprattutto conto che proprio attraverso la sistematica violazione del segreto istruttorio si sono consumati i più atroci massacri dell'immagine e della reputazione di moltissime persone (innocenti o meno che fossero).
L'approvazione di queste proposte rappresenterebbe l'ennesimo, encomiabile tentativo del legislatore di difendere l'inviolabile diritto all'onore, alla reputazione, all'immagine, all'identità, alla riservatezza delle persone, da sempre massacrato da un giornalismo vergognoso ed umiliato da una giurisdizione fuorilegge.
Da cinquant'anni il legislatore italiano interviene, non senza contraddizioni, a difesa e sostegno di questi diritti.
Nel 1948, con l'introduzione della legge sulla stampa, ha previsto per il reato di diffamazione a mezzo stampa una riparazione pecuniaria ad hoc, oltre che pene molto severe e l'obbligo di pubblicazione anche integrale della sentenza; ha stabilito che si procedesse con il rito direttissimo e sancito l'obbligo per il giudice di emettere la sentenza entro trenta giorni; ha cercato, in altre parole, di assicurare severità, certezza e prontezza della pena, predisponendo così un efficace deterrente contro i diffamatori a mezzo stampa.
Nel 1981 ha riformato la disciplina in tema di rettifica nel senso di rendere più certo il diritto di rettifica: ha previsto non solo la possibilità di chiedere al pretore in via d'urgenza la pubblicazione di una rettifica che il quotidiano si rifiuti di pubblicare, ma anche sanzioni disciplinari a carico dei giudici che colpevolmente ritardano il deposito della sentenza eventualmente scaturita dalla violazione delle norme in tema di rettifica.
Nel 1989 infine, con il nuovo codice di procedura penale, ha introdotto una disposizione (art. 577 c.p.p.) che permette all'offeso dal reato di diffamazione a mezzo stampa, costituitosi parte civile, di impugnare la sentenza di primo grado anche agli effetti penali.
Lungo questo percorso il legislatore è stato spesso affiancato dalla Cassazione, che con la sua giurisprudenza in tema di diffamazione a mezzo stampa è andata fissando dei limiti ben precisi all'esercizio legittimo del cosiddetto diritto di cronaca giornalistica: il rispetto della verità dei fatti narrati, l'interesse pubblico della notizia e la forma civile dell'esposizione dovrebbero costituire, secondo un consolidato indirizzo, i requisiti minimi di un corretto esercizio dell'attività giornalistica che sia idoneo a "giustificare" una condotta altrimenti diffamatoria.
A fronte di tali precetti legislativi e giurisprudenziali, l'ordine dei giornalisti e l'ordine dei magistrati hanno sistematicamente agito ed operato da "delinquenti" (nel senso proprio di coloro che delinquono), violando puntualmente, nell'esercizio delle loro rispettive attività, la lettera e lo spirito della legge.
Il costume giornalistico italiano infatti, per quel che riguarda il rispetto della reputazione e della dignità delle persone, è pari solo all'impudicizia e all'impunità di chi si erge a sua difesa; e chi è lo storico ed interessato difensore di tale sconcio costume ? Proprio la casta dei magistrati, che nel corso di un cinquantennio ha dato vita - in tema di diritto all'onore, alla reputazione, all'immagine, all'identità - ad una "prassi giudiziaria" indecente, vergognosa ed arbitraria.
L'Ordine giudiziario ha, nel suo insieme, sistematicamente vanificato ed annullato ogni effetto di deterrenza ed ogni capacità repressiva delle norme poste a tutela del bene della reputazione, vanificando così ogni sforzo del legislatore e determinando una prassi diffusa e consolidata di negazione profonda dei diritti primari e vitali della personalità, fino ad intaccare lo stesso diritto alla vita civile e politica.
Esso ha svuotato d'ogni pregnanza il requisito della severità della pena: il legislatore aveva previsto pene fino a sei anni, ma nei fatti le rarissime volte in cui è stata comminata una pena detentiva, non è mai stata superiore a qualche settimana; ha reso ridicolo ed effimero il requisito della certezza della pena (stando ai dati statistici disponibili - il 97% delle querele presentate viene ignorato - sembrerebbe "istituzionalizzata" la certezza di impunità per i diffamatori); ha letteralmente annullato il requisito della prontezza della pena: da sempre e con sempre maggior scientificità e sistematicità le Procure ed i Tribunali della Repubblica hanno violato le norme che imponevano il rito direttissimo, istituzionalizzando un rito non previsto, giudicando nei fatti extra legem (questo fino a quando non è intervenuta la Corte costituzionale - nel 1991 - ad eliminare anche formalmente l'obbligo di procedere con rito direttissimo), con il risultato che invece dei trenta giorni previsti, non si giunge ad una
sentenza di primo grado prima di due anni; non ha mai contestato la recidiva, nemmeno ai pluricondannati per diffamazione a mezzo stampa; ha fatto strame delle norme in tema di rettifica, non permettendo che si ricorresse al pretore in via d'urgenza se non a condizioni straordinarie e non irrogando mai una sanzione disciplinare; ha di fatto disatteso l'intera giurisprudenza della Cassazione; infine, ha utilizzato incisivamente lo strumento del risarcimento dei danni per lesioni alla reputazione a tutela soprattutto di se stesso: i magistrati vincitori delle cause per risarcimento dei danni alla propria immagine e reputazione ottengono mediamente risarcimenti ben più consistente di quelli riservati ai "normali cittadini" (a tal proposito è interessante vedere le ricerche del prof. Zeno Zencovich e dell'avv. Scarselli).
Oggi, con questa ragionevole iniziativa della Camera dei deputati, assistiamo ad un copione già noto: il legislatore tenta di apprestare strumenti a difesa del bene della reputazione, dell'immagine e della riservatezza e, come un sol uomo, la casta dei giornalisti (onore a Piero Ottoni, unica voce dissenziente) e quella dei magistrati, insorgono violentemente, gridando all'attentato alla libertà di stampa, stracciandosi senz'alcun pudore le vesti e chiedendo l'intervento puranco del padreterno.
La realtà è che essi invocano fantomatici diritti di cronaca e di critica solo a copertura di un costume giornalistico che ha fatto della diffamazione e della lesione dell'immagine la principale arma di lotta politica a servizio di interessi di potere editoriali e politici.
Si oppongono preventivamente a disposizioni di legge solo per meglio poterle violare una volta entrate in vigore, gli uni continuando a diffamare e massacrare le persone, gli altri coprendo tale condotta con prassi giudiziarie illegali ed arbitrarie.
L'auspicio è almeno quello che il parlamento - invero troppo spesso prono al ricatto e alle minacce di questi poteri fuorilegge - renda onore alla propria dignità (se ancora gliene resta) e mantenga fermo il proposito di costruire un argine a difesa dei diritti fondamentali della persona.