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Conferenza Rivoluzione liberale
Partito Radicale Rita - 11 febbraio 1999
EMMA BONINO
Quella che segue è la trascrizione, non revisionata dall'autrice, dell'intervento pronunciato da Emma Bonino in occasione dell'incontro dei promotori dell'Assemblea dei Mille, tenutosi a Roma, il 7 febbraio scorso all'Hotel Ergife. Fa testo la registrazione di Radio Radicale.

INTERVENTO DI EMMA BONINO - ERGIFE 7/2/99

Vi avverto subito che il mio sarà un intervento noioso perché fatto di molte parti lette, e anche faticoso perché, mentre sto parlando a voi nel rispetto che vi devo per la fatica di esser venuti, cercherò anche di parlare a chi per pigrizia non è venuto e tuttavia spero mi ascolterà, oggi o domani, in qualche fascia oraria, a Radio Radicale.

Porterò qui elementi con forza di convinzione, freddi dati se volete, cose che noi abbiamo metabolizzato e di cui siamo profondamente convinti ma che, quando le diciamo solo noi non valgono, anzi appena noi le diciamo cadono nel silenzio. Ma proverò a dirle - le stesse cose che abbiamo elaborato e in cui crediamo - citandole da fonti ben più autorevoli di noi: Premi Nobel e grandi editorialisti. Forse questo servirà persino a farne fare degli spezzoni per Radio Radicale, per farli trasmettere ad esaurimento. In questa ottica, e ve ne chiedo scusa, farò un intervento non come il mio solito, ma tutto pieno di cifre e persino un po' pedante; vedremo così se qualcuno dei "consumatori" di Radio Radicale, così spesso parassitari (e non penso e non parlo solo del consumatore, diciamo così, "normale", ma di qualcuno di quelli, per esempio della classe politica, che ascoltano tranquillamente "Stampa e regime o servizi analoghi) visto che queste cose non le diciamo solo noi ma persone così importanti e autorevoli,

magari ci pensi, alzi il telefono e decida bel bello che sì, c'è proprio necessità di un nuovo "contratto sociale", c'è necessità di "affermare le regole" e, soprattutto, di "affermare una politica".

Partirò da una cosa che mi ha colpito molto, recentemente. Dopo, voi mi direte: "Beh, lo sapevamo già". Eppure, leggendo poco fa il libro di Carlo Rosselli, "Socialismo liberale", mi imbatto in una cosa che ha avuto per me quasi la funzione di un colpo nello stomaco. Dice Rosselli: "Il problema italiano è, essenzialmente, problema di libertà. Ma problema di libertà nel suo significato integrale: cioè di autonomia spirituale, di emancipazione della coscienza, nella sfera individuale; e di organizzazione della libertà nella sfera sociale, cioè nella costruzione dello Stato e nei rapporti tra i gruppi e le classi. Senza uomini liberi (io qui, parafrasando, direi senza persone libere), nessuna possibilità di Stato libero. Senza coscienze emancipate, nessuna possibilità di emancipazione di classi". Perché mi ha colpito? Perché credo che la caratteristica, la nostra caratteristica, anche se parliamo - e parliamo e parleremo, in questi giorni, soprattutto di "economia" - sia giustappunto questa, di affrontare anche

questi grandi temi, quelli di cui tutti cianfrugliano - disoccupazione, non disoccupazione, flessibilità, ecc. - proprio e sempre dal punto di vista delle libertà individuali e delle libertà di tutti.

E allora: nel giro di solo pochi giorni ho visto, ho notato in qualche modo negli organi di informazione, addirittura nello stesso giornale, quale sia il filo del dilemma che forse, in questa situazione così complessa come è quella italiana, possiamo provare a tirare per sciogliere la matassa. Proprio ieri sera un Tg, il TG1 credo, dava atto che in non so più quale paese italiano non si riesce a coprire i posti di bidello e tutti i relativi concorsi sono andati a vuoto perché, in definitiva, a fare il bidello non c'è incentivazione: nel senso che traccheggiando qua e là tra sussidi pubblici, un po' di "nero", la famiglia, ecc., uno stipendio di 1.300.000 al mese non appare incentivante, con tutto quello che ciò significa. Contemporaneamente, nella cronaca di una manifestazione svoltasi non so più dove, vedo riprodotta (credo su "Repubblica") una grande fotografia con dei manifestanti che, evidentemente appoggiando questa stessa linea di tendenza, issavano un cartello che diceva: "Meglio disoccupati che s

pazzini". Ma nello stesso tempo, esattamente sullo stesso organo di informazione, nel giro di due settimane venivano registrate due prese di posizione, due analisi, diciamo, di due rispettati signori che si pronunciavano esattamente all'opposto.

Da una parte avevamo l'espressione - anche individuale e ben concreta - di gente che non va - nemmeno si presenta! - al concorso di bidello o scende in piazza a dire "meglio disoccupati che spazzini"; dall'altra, due interviste di grande rilievo. Una, credo che sia di ieri, a Amartya Sen, Premio Nobel per l'economia, il quale esattamente dice: "Meglio un lavoro flessibile che nessun lavoro, meglio la flessibilità che la rigidità della morte sociale. Tutto pur di curare il male oscuro del Vecchio Continente." Sen prova a dare le ragioni della sua scelta non solo dal punto di vista economico, ma proprio dal punto di vista della libertà individuale, della dinamica individuale, quasi di tipo psicologico. "L'Europa, ben più dell'America, ha bisogno di gente che abbia fiducia in se stessa, che non sia costretta a cominciare la sua vita di adulto, dopo la scuola, dipendendo subito dall'aiuto di qualcuno, la famiglia e lo Stato, sviluppando una psicologia di disperazione e rassegnazione; ne ha bisogno per il suo d

inamismo, per la sua crescita, e per ridurre il peso troppo alto dei suoi sistemi di Welfare." E Sen va avanti elaborando anche i temi del contrasto culturale, quindi poi legislativo, o legislativo e quindi poi culturale, tra Stati Uniti e Europa. Dice: "Il sistema politico americano è in generale molto meno tollerante verso un alto tasso di disoccupazione. Fa un po' parte della loro filosofia di "self help", in cui ogni singolo individuo ha la responsabilità del proprio destino. Questo comporta che si ritiene essenziale dargli l'opportunità di badare a se stesso, guadagnando un reddito invece che affidandosi all'assistenza."

E avanti ancora: proponendo la necessità di un sistema di incentivi alla creazione di lavoro, ad assumere con minori pesi fiscali e maggiori aiuti finanziari, Amartya Sen passa attraverso tutta un'analisi della disoccupazione tecnologica in Europa e arriva al punto dolente della flessibilità. Dice: "So che questo è un argomento scottante, perché viene visto come un modo di colpire i sindacati, che spesso reagiscono restando attaccati ad un sistema convenzionale di garanzie. Ma bisogna che tutti capiscano che è nell'interesse dei lavoratori tutto ciò che può incrementare l'occupazione, dunque anche la flessibilità(...). Bisogna che si accresca la comprensione sociale della nuova realtà. Del resto, talvolta la resistenza alla flessibilità viene anche dagli imprenditori, spaventati dal di più di immaginazione che richiede anche a loro. Spesso viene da strutture obsolete, che necessitano di un ripensamento: penso (vedi un po', l'ho già sentito anche questo, anzi l'avevamo anche fatto noi) agli orari di apertur

a dei negozi, al funzionamento degli asili e delle scuole, all'industria del divertimento. Serviranno nuovi orari di vita per nuovi orari di lavoro, per chi fa il part-time o lavora la sera. Ma guai a chiudere gli occhi. Le leadership dell'Europa devono sapere che la Storia e gli europei le giudicheranno per quanto saranno in grado di fare contro la disoccupazione: perché essa rende le nostre società non solo meno giuste, ma meno efficienti".

Un così autorevole signore mi pare dica esattamente quello che noi non solo andiamo dicendo da qualche anno ma - se ho capito bene - andiamo facendo, fra la derisione, mi pare, e certi giudizi per lo meno superficiali quando non in mala fede, di esserci venduti a chissà quale liberalismo-senza-anima-o-senza-cuore. o a chissà quale teoria del profitto. Teoria del profitto, oppure della costruzione della ricchezza? Proprio l'altro giorno il ministro laburista inglese dell'economia, urlando in un suo intervento alla City poi ripreso alla Camera dei Lord, ha detto: "Si si, lo sappiamo, la sinistra europea si è sempre e soprattutto preoccupata delle regole di distribuzione della ricchezza, ma sarebbe ora che ci cominciassimo a preoccupare della produzione della ricchezza, perché andando avanti così, "solidarmente", noi non facciamo altro che distribuire debiti; con molta solidarietà, come ripetiamo sempre, invece che distribuire ricchezza noi distribuiamo debito...".

Ma, e per scendere più nel concreto o nell'immediato, a qualcosa che è in termini più vicini a noi, alla classe politica o imprenditoriale e forse persino ai sindacati italiani, un bell'editoriale di domenica scorsa di Turani (sempre su "Repubblica") diceva sostanzialmente le stesse cose; e partendo dalla flessibilità arrivava a denunciare l'ipocrisia che c'è in certe situazioni: blateriamo tanto, flessibilità sì, flessibilità no, e le garanzie, e questo e quell'altro, ma intanto - di fatto - in Italia noi una flessibilità ce l'abbiamo: è la flessibilità del lavoro in nero, è la flessibilità senza regole dei cinque milioni di lavoratori senza regole in assoluto, nessuna, neanche la minima, ridotti a criminali o clandestini. E proprio su questi cinque milioni di lavoratori si reggono le difese, le prerogative (si fa per dire) dei lavoratori "in bianco". Insomma noi abbiamo una flessibilità all'italiana, lavoratori in bianco e lavoratori in nero. A questo siamo finiti per difendere appunto, in qualche modo, i

privilegi dei lavoratori in bianco. Per non toccare il tema della flessibilità - perché non si può, se no poi i sindacati si innervosiscono, e gli imprenditori altrettanto - abbiamo istituzionalizzato la flessibilità in nero, senza regole, come nostro solito e come siamo abituati a fare. Ovviamente, a partire da questa situazione si formano tutta una serie di cliché che se non facciamo attenzione rischiamo di interiorizzare noi stessi, con la contrapposizione del modello sociale europeo, del suo "Welfare State", alla società-senza-anima-e-senza cuore di tipo americano. Devo dire che chi ha questa grande idiosincrasia di guardare al di là dell'oceano, se per caso guardasse al di qua, dalle parti nostre, troverebbe pane per più di una riflessione: se la cultura americana è proprio tanto ostica, forse potrebbe in modo più confortevole guardare alla cultura inglese o, comunque, alla realtà inglese o a quella irlandese o a quella olandese che forse, come sembra, ci spaventano di meno.

Si dice sempre, si ripete ogni volta, che gli Stati Uniti hanno trovato, inventato milioni dei nuovi posti di lavoro nei settori dell'informazione e delle nuove tecnologie; questo si scopre dai dati statistici, ma intanto rimane il cliché che tutti mi ripetono, Cofferati in testa: avranno inventato nuovi lavori, ma sono i friggitori del McDonald, mal pagati, ecc. Non è affatto così, questo cliché una volta per tutte ce lo dovremmo togliere dall'anticamera del cervello; e appunto dice Turani, in quello stesso articolo: "Qualcuno, negli Stati Uniti, in tutti questi anni avrà pure passato qualche giornata a mettere a punto i software che oggi tutto il mondo usa. Qualcuno avrà inventato i telefonini e i relativi sistemi informatici che li fanno funzionare. Qualcun altro, suppongo, avrà fatto qualche pensiero intorno ai personal computer (che non mi risulta siano stati messi a punto a Roccaraso). E così via. Insomma, l'idea di un'America che da vent'anni produce solo posti di lavoro da friggitore di hamburger

pagati pochi dollari all'ora è certamente falsa. Ma anche ammettendo che non tutti questi nuovi posti siano "alti", rimane il fatto che qui da noi, cari sindacalisti, le cose non stanno molto meglio di sicuro.,," Qui Turani racconta la ricerca di cui tutti avrete letto, sui cinque milioni che lavorano in nero, "suppongo, in condizioni salariali e normative molto peggiori di quelli che invece lavorano "in bianco". E prosegue: "Si può discutere a lungo se un friggitore di hamburger sta peggio (dal punto di vista salariale e normativo) di una ragazza di 17 anni che cuce scarpe in una cantina di Napoli, ma non credo che la ragazza di Napoli si senta in Paradiso. In sostanza credo che non ci sia differenza fra qui e là. In America il lavoro è più flessibile e meno regolamentato, meno protetto. Qui da noi è super-regolamentato, super-protetto, ma poi, nelle cantine, ci stanno ben cinque milioni di persone che invece non godono di alcun diritto". Insomma, questi cinque milioni sono la nostra flessibilità, la flessi

bilità all'italiana. "E se voi togliete, con un colpo di bacchetta magica, quei cinque milioni di "schiavi" voglio vedere che cosa succede nel resto dell'industria, quella "in bianco". Turani va avanti dicendo: "E' così difficile ammettere che in una società moderna, varia e complessa, esistono lavori ben pagati, lavori così così, e lavori da quattro soldi? Ognuno si affaccia sul mercato del lavoro e, all'inizio, prende quello che c'è. Poi, può sperare di crescere e di andare verso lavori migliori e meglio pagati. Ma tutto - se fosse possibile - alla luce del sole. E' così difficile riconoscere la verità delle cose? Si. Questo è un paese fondamentalmente ipocrita. Tutti devono avere una "paga Fiat", anche quelli che lavorano dal meccanico sotto casa mia. E poiché questo non è possibile (nessun paese del mondo ci è riuscitio, finora), il 20 per cento degli italiani finisce per lavorare in cantina "a fare produttività" anche per i lavoratori ben protetti dal sindacato. Non stupisce che in un paese del genere,

così assurdo, ci sia una disoccupazione "ufficiale" che è ormai tre volte quella degli Stati Uniti. Non il venti per cento in più o il trenta, tre volte. Forse, - così conclude - invece di esportare il nostro patto sociale, dovremmo provare a esportare un po' di sindacalisti, un po' di ministri e anche una certa quota di imprenditori".

Insomma, un paese schizofrenico, un paese soprattutto in cui certe posizioni non vengono ad uno scontro democratico aperto, in cui tutto si deve "tenere" nella concertazione, in questa melassa che credo abbia un po' obnubilato anche le forze produttive del nostro paese. Così, il ruolo che da qualche anno, in modo determinato, abbiamo dovuto e voluto esprimere, è stato quello di portare alla luce la necessità di una politica liberale, in questo nostro paese che rischia di avere una classe politica occupata, mi pare, in tutt'altro, ma comunque coperto da una coltre sostanzialmente conformista, in cui se solo si annuncia uno sciopero si resta tutti fermi, tremando paralizzati, in cui lo scontro sociale e democratico pare sia anatema, così come pare sia anatema lo scontro delle idee o delle ipotesi politiche, cosicché la cosa più semplice, la cosa migliore da fare quando qualcuno avesse mai un progetto, un'idea, ecc. resta quella, evidentemente, di adottare il silenziatore, in modo che la cacofonia altrui, la c

onflittualità perenne, possa meglio esprimere il nulla sostanziale.

Aggiungo ancora due o tre elementi prima di arrivare a trarre qualche conclusione. Lo sappiamo, ogni periodo storico ha, come direbbero gli inglesi, la sua bean counting, la sua conta dei fagioli. Negli anni ottanta il mondo andava diversamente, si contavano i missili e le divisioni dalla NATO o dal Patto di Varsavia. Poi è successo un qualche piccolo intoppo, il muro di Berlino è crollato e insomma, oggi, questo decennio è il decennio in cui si analizza il Prodotto Interno Lordo, il deficit, il debito pubblico e ogni sorta di grandezza macroeconomica. Certo, è meglio contare soldi che carri armati e cacciabombardieri, però a me pare che, proprio come allora pochi si chiedevano quale influenza concreta avessero diverse quantità, un più o meno di armi sulla sicurezza del singolo cittadino - cioè non si faceva lo sforzo di passare dal macro al micro e si guardava solo a tutte queste belle armi che abbiamo, una più potente dell'altra - così oggi nessuno si chiede "questo quanto vale, quanto dà, qual è il valore

aggiunto per la sicurezza e il benessere del singolo cittadino", ecc. A me pare che oggi si fa lo stesso non-viaggio, non-percorso. E cioè, oggi come allora, nessuno o quasi intraprende il viaggio dal macroeconomico al microeconomico chiedendosi cosa stia succedendo al singolo, il singolo cittadino, il singolo utente e consumatore cittadino. Tutte le grandezze rimangono allo stesso livello macroeconomico, ed è un peccato perché, come molti viaggi, anche questo dal macro al micro, può avere una funzione pedagogica: può dare all'individuo, al contribuente-consumatore, una misura migliore del proprio benessere. E persino della propria libertà.

Provo a spiegarmi con alcuni dati, anche questi incontestabili - sono del '97 - per terminare poi, sostanzialmente, con una proposta. Dal macro al micro: lo Stato italiano ha incassato nel 1997 circa il 50 per cento della ricchezza prodotta nel paese. In linea di principio, dunque, ciascun cittadino dispone liberamente solo della metà del proprio reddito: il resto lo passa allo Stato, in una forma o in un'altra, perché lo gestisca per lui. Ma la storia non finisce qui. Alcune stime internazionali ("The Economist", 3/5/97), ci dicono che in Italia un quarto del reddito riesce ad evadere la fiscalità, diretta o indiretta. Quindi, impossibile stabilire con certezza quanto vi inciderebbe il prelievo fiscale, se venisse alla luce. Ma comunque, dall'ipotesi semplicistica che anche in questo caso lo Stato riuscisse ad incassarne la metà consegue che se tutti pagassero tutte le loro tasse una media di più di 60 lire su 100 di ogni reddito finirebbe nelle casse dell'erario.

Arriviamo a risultati analoghi anche seguendo altri percorsi. Il "Sole - 24 Ore" aveva proposto di fare del 23 luglio la festa del lavoro, perché è da quel giorno dell'anno che un lavoratore medio comincia a guadagnare per sé - prima, nei primi sei mesi, lavora e guadagna per pagare tasse che, se i conti del giornale sono giusti, ammonterebbero al 55% del suo reddito; nel 1997 un lavoratore indipendente - in Italia ce n'erano nel 1995 quasi cinque milioni, un quarto degli occupati - non evasore, che guadagni cento milioni lordi l'anno, ne girerà tra imposte dirette e indirette una sessantina allo Stato. Sicché si capisce questa proposta, di fare del 23 luglio il giorno del lavoro, e forse dovremmo davvero farlo, di festeggiare il momento in cui cominciamo guadagnare per noi, mentre quanto abbiamo guadagnato prima è a gestione pubblica.

Ora, a parte ogni altra considerazione, a me sembra che chiunque si trovi nella condizione di amministrare direttamente solo il 40% del proprio reddito abbia il diritto di chiedersi se non sia finito per sbaglio in Unione Sovietica - dove la proporzione non doveva essere troppo dissimile (immagino che pure lì qualche rublo glielo lasciassero, prima o poi, per soddisfare alcune esigenze elementari). Ma ci sono anche altre considerazioni da fare, che conosciamo tutti. La pressione fiscale ha rendimenti decrescenti: più è alta e più incoraggia l'evasione, tutte le cifre lo dimostrano. Inoltre, essa non è per niente trasparente: si sostanzia di ritenute alla fonte, di Iva sulle utenze private, del contributo al servizio sanitario nazionale nascosto nelle polizze auto ecc. Oppure è vessatoria: dal bollo sul passaporto agli anticipi obbligatori e ai crediti d'imposta inesigibili, e così via. Certo la benzina farà male all'ambiente, d'accordo: ma un litro di benzina costa al consumatore statunitense un quarto di qu

ello che costa a un europeo. Perché? La risposta è solo e soltanto questa: per le tasse.

Si tratta di un fenomeno relativamente recente: nei paesi industrializzati la spesa pubblica, come percentuale del PIL, era in media al 28% nel 1960; solo nel 1996 è salita al 46 %. Queste medie nascondono evoluzioni molto diverse: negli Stati Uniti, nello stesso arco di tempo, si è passati dal 27 al 33 %, mentre in Gran Bretagna dal 32 al 42 %; ma in Italia si è passati dal 30 al 53; in Belgio dal 30 al 54 %; in Francia dal 34 al 54; in Germania dal 32 al 49. In Svezia addirittura dal 31 al 65. Questi aumenti si sono tradotti ovunque in una crescita dei trasferimenti e dei sussidi, e nella misura in cui questi sono andati a sostenere i meno abbienti piuttosto che i buchi del bilancio del Crédit Lyonnais o dell'Alitalia, beh, allora tutto bene; cominciamo ad andare un po' meno bene quando si sono trasformati in un aumento del consumo della Pubblica Amministrazione; poi, quando si sono trasformati in un aumento della spesa per il pagamento degli interessi sul debito, siamo andati male: e quando si sono tra

sformati in una contrazione della spesa per gli investimenti siamo andati malissimo. Eppure queste sono esattamente le quattro cose che si fanno con la spesa pubblica.

Mi chiedo: non è in questi dati il nocciolo di tanti bei dibattiti sul cosiddetto modello europeo, di cui andiamo tanto orgogliosi e che non ci stanchiamo di contrapporre a quello americano, o anglosassone? Non è a partire da questo forse che dovremmo - non far riflettere la classe politica che queste cose già le sa, le sa ma non vuole agire in conseguenza - ma far riflettere invece i cittadini, quelli che magari non le sanno, queste cose, oppure non si sono mai soffermati a rifletterci sopra? A giudicare da questi dati bisogna pur riconoscere e far capire alla gente che il rischio di andar facendo l'Unione degli Stati Sovietici Europei, invece che degli Stati Uniti d'Europa esiste, eccome. Ci tornerò dopo, in contrapposizione anche allo slogan che è nostro da sempre, per dire appunto che fare gli Stati Uniti d'Europa non basta, non basta più fare gli euro-entusiasti acritici. Forse bisogna provare ad avere un progetto diverso, costruire un progetto altro, darsi le forze necessarie, e non solo guardando alle

questioni di politica estera e della difesa.

Ancora qualche piccola osservazione (poi, come promesso, vengo al micro). La prima è che tutto questo esercizio di risanamento delle finanze pubbliche, di contenimento del deficit che è stato imposto dai criteri di convergenza per la moneta unica si è svolto in Europa - ed in Italia - molto di più per mezzo di un aumento delle entrate che per mezzo di una riduzione delle uscite. Tutto già noto, ma è meglio ridirlo. E dunque adesso veniamo al nostro cittadino-consumatore europeo. O meglio all'esempio del lavoratore indipendente europeo che paga, o dovrebbe pagare tutte le sue tasse. Se costui provasse ad esempio ad eccepire che se vivesse negli Stati Uniti controllerebbe direttamente una porzione quasi doppia del proprio reddito, verrebbe subito tacciato di egoismo, se non addirittura di stupidità. Gli si contrapporrebbe immediatamente, gli si rimprovererebbe: "Ma hai presente quanto costa lassù iscrivere un figlio all'Università? O assicurarsi privatamente per il servizio sanitario?".

Tutto vero. Però - e tralasciamo pure di considerare i ticket sul nostro servizio sanitario e la sua qualità, le tasse di iscrizione per la nostra università e la sua qualità e così via discorrendo - però resta il fatto che 20 milioni di lire in più di reddito disponibile per vent'anni (il tempo per maturare l'ingresso all'università di un figlio) fanno quattrocento milioni - senza contare evidentemente gli interessi sulla parte di questo reddito che dovrebbe essere investito in risparmio. Ebbene, credo che ce n'è abbastanza per pagare Harvard o la Columbia al proprio figlio che volesse andarci, per la copertura assicurativa contro i rischi da malattia e per quant'altro. Ma il punto fondamentale è che in tutto questo processo, rimanendo in controllo di una porzione maggiore del proprio reddito, il cittadino rimane anche in controllo della relativa spesa. Può scegliere di coprirsi verso certi rischi e non verso altri, può scegliere la compagnia con cui assicurarsi, può scegliere per i propri figli un'ottim

a università, una mediocre, una così così, o nessuna. Non viene trattato come un minus habens cui non solo bisogna imporre gli accantonamenti per finanziare certi servizi, ma addirittura gli si prelevano risorse per fornirgli gli stessi servizi in regime monopolistico, che gli occorrano o che non gli occorrano. C'è insomma, dietro tutto ciò, una fondamentale questione di libertà individuali.

Quando - tra pochi mesi o non so quando - l'incubo moneta unica sarà finito, sarà tempo - e bisogna prepararcisi da subito - per ricominciare a discutere il contratto sociale che lega il cittadino-consumatore-utente allo Stato. Credo che dovremmo tutti prendere a chiederci di cosa deve farsi carico lo Stato oltre alla sicurezza interna ed esterna, la diplomazia, la giustizia, la scuola dell'obbligo e certe infrastrutture, e che cosa è meglio lasciare all'incontro tra domanda ed offerta di agenti privati. Tra l'altro, anche se in teoria l'approccio è identico, in pratica è molto più facile difendere gli interessi di un cittadino in quanto consumatore di beni e servizi privati che in quanto utente di servizi forniti dallo Stato in regime di monopolio. Nel primo caso, anche a livello europeo (con gli effetti della concorrenza), i codici di condotta volontari e un limitato intervento legislativo - sicurezza dei prodotti, clausole contrattuali, garanzie post-vendita - il consumatore continua a guadagnare terreno

rispetto alle sue controparti, non ultimo in termini di prezzi. Nel secondo caso, con i servizi erogati dallo Stato in regime di monopolio, i passi in avanti sono assai meno decisi - quando esistono - e comunque i prezzi aumentano, poiché aumenta il prelievo fiscale.

Resta il problema della giustizia sociale. Noi viviamo tutti, credo, nell'illusione che la crescente invadenza dello Stato nella sfera delle libertà individuali serva almeno a ridistribuire ricchezza ai cittadini più poveri. Ma siamo sicuri che questo sia il modo migliore per farlo? O che abbiamo davvero - noi europei e, in particolare, noi italiani - qualcosa da insegnare agli altri? Qualche tempo fa, un'inchiesta di John Vinicour sull' "International Herald Tribune" rivelava che c'è più povertà - misurata come la percentuale della popolazione che ha un reddito inferiore alla metà di quello medio - in Europa che negli Stati Uniti. Abbiamo quindi più povertà; ma abbiamo anche molta più disoccupazione, se è per questo: il doppio. E per tutto ciò paghiamo molte più tasse e siamo dunque, come ho cercato di dimostrare, considerevolmente meno liberi.

Materia per discutere o per agire, credo dunque che ce ne sia.

Mi chiedo allora: ma come si cambia un contratto sociale? Con chi? Con quali alleati? E come? Con un nuovo "Manifesto dei lavoratori"? Magari, forse sarebbe tempo che cominciassimo a scrivere un nuovo "Manifesto dei lavoratori e dei cittadini" degli anni 2000. Oppure si cambia il contratto sociale con la rivoluzione, (non quella armata, evidentemente)? Noi, più modestamente, cerchiamo di riuscire a porre questi problemi di libertà e di regole attraverso una scadenza - l'incontro di 1000 persone il 5, 6, 7 marzo - che parrebbe a qualche altro partito, o anche al sindacato (che può pagare le tradotte, con i treni, con i bus, con questo e con quello) del tutto insignificante. Per noi, mille cittadini, cittadini determinati, sono la forza minima con cui provare - con metodo e sistema liberale e democratico - a cambiare il contratto sociale. Da qui l'importanza di questa assemblea. Non per contarci, ma per misurarci con quella che può essere un'ambizione, e comunque non deve più essere un'illusione. Quello su

cui sembra così urgente silenziare un gruppetto di radicali, è che noi proviamo a resistere. Contare su questa forza minima, che esprima anche settori della società, è per noi la garanzia di voler percorrere un progetto ambizioso, senza distribuire illusioni.

Per chiudere: a me pare che queste sono, a livello europeo e a livello nostro, le priorità che abbiamo di fronte. Ci sono poi, di fronte a noi, altre scadenze, scadenze di conta politica o meglio, come già qui ricordato da Marco Cappato, scadenze di conta di potere. Ho l'impressione, anzi mi pare evidente, che la classe politica attuale, questa partitocrazia virtuale senza partiti, si stia creando per partenogenesi dai gruppi parlamentari. Almeno, nella Prima Repubblica, la partitocrazia aveva il compito e il peso per andare a convincere il militante, raggruppato non so dove, nella sezione non so quale. Oggi no, di tutto questo ci siamo "liberati". Oggi, così, abbiamo una partitocrazia senza partiti, una partitocrazia virtuale che si sconvoca ma che non si scombina, che nasce per partenogenesi di gruppi parlamentari in un groviglio di sigle su cui ci siamo tutti persi ma soprattutto si è persa la politica, si è perso il paese, si è perso il cittadino. Voi ricorderete quando dicevano che in Italia non si può

fare il sistema anglosassone, perché queste sono culture che noi non abbiamo, noi siamo molto più, e quindi non si vada a Londra, molto più ragionevole andare a Parigi: doppio turno, un po' di partiti... Poi deve essere successo qualcosa, per cui abbiamo perso la coincidenza per Parigi e siamo arrivati in pieno Libano. Questa è la verità. Il Presidente Santer una mattina in Commissione cercava di leggere la composizione del governo e si è perso nelle dieci sigle. Disperatamente chiedeva aiuto a me e a Monti, per cercare di capire lo "Si", il CCP o che altro, ma noi ci eravamo persi come lui. Eppure, succede oggi che di fronte a tutto questo si vada a scadenze di conta interna che niente hanno a che vedere con le preoccupazioni che noi esprimiamo, con le priorità che noi abbiamo. No, loro hanno in mente tutt'altro. E dico questo - per essere chiari - con buona pace sia della destra che della sinistra, anche se forse, rispetto agli ultimi interventi di chi oggi scopre il Dalai Lama e le mine anti-uomo e quant

'altro, sarebbe bene citare le fonti, per pura e semplice correttezza, come si fa anche dal punto di vista puramente deontologico. Anzi, vorrei che in questa ripresa e riconoscimento dei temi radicali transnazionali o no, oltre che - per giustizia, per giustezza, intendiamola così - citare le fonti, non dimenticassimo o non ci si dimenticasse del Tribunale Internazionale permanente per il quale, forse, se ci sbrigassimo a essere i secondi ratificatori (perché il Senegal ha già ratificato) non sarebbe male. Spero infatti che l'impulso italiano non si sia esaurito e liquefatto nel suo cammino...

Chiudo. Noi abbiamo l'ambizione di voler proporre a questo paese l'inizio di un nuovo contratto sociale. Non ne vogliamo avere l'illusione, ma sì l'ambizione. E che sia l'inizio della costruzione di una nuova Europa liberale, di un'Europa politica di stampo liberale. Con i Mille o, meglio, per lo meno a partire da Mille impegnati ad essere con noi. Poi vedremo gli strumenti, magari un pacchetto referendario sul collocamento, sul lavoro part-time, appunto sulla flessibilità. Magari andremo anche a chiedere ad Amartya Sen se volesse far parte del comitato promotore, giusto per passare dalle dichiarazioni ai fatti. Oppure chiederemo a Turani, o ad una serie di signori, che ci aiutino, ci illuminino, ci confermino; se poi volessero magari anche loro dare un po' di olio di gomito, vedere se potessero... Perché se non li facciamo adesso, questi referendum, non ne faremo più fino al 2002.

E' vero che andiamo oggi ad una stagione referendaria; e io mi auguro che riusciremo a fare, con alcuni almeno del Comitato promotore, una specie di giuramento della Pallacorda per impedire che si tocchi e si stravolga l'esito del referendum. Sarà forse non una legge perfetta, rispetto all'attuale, va bene, ma dovendo altrimenti affidare al Parlamento (dopo il consolidamento alle Europee di venti liste, listine, ecc.) una riforma elettorale, credo che non sia insensato tenerci il risultato referendario ancorché imperfetto. Mi auguro che alcuni referendari del Comitato promotore (so che altri la pensano diversamente) siano disposti a questo giuramento della Pallacorda; perché da questo esito referendario parta invece un'altra stagione di riforme, quella verso il presidenzialismo, quella che - pare - l'ottanta per cento degli italiani continua a volere. Per fare tutto questo credo che bisogna parlare con chiarezza ai cittadini, a chi vorrà essere con noi, chiunque essi saranno.

Questo paese ha sempre avuto e, a maggior ragione, ha bisogno della forza, della determinazione, della capacità di scandalo o di rischio di Marco Pannella. Io credo che questo non sia (e non è) solo la mozione degli affetti (per me, è anche la mozione degli affetti) ma il riconoscimento di una necessità per questo paese, che non lo ha mai né riconosciuto né voluto mentre tutti, a destra come a sinistra, si sono ben esercitati a calpestarlo a svilirlo. Io credo che mai come in questo momento, in questa poltiglia, la melassa che ormai credo copre tutti - fino alle nostre intelligenze, a volte - la sua capacità di invenzione, la sua capacità di non gestire l'esistenza ma di rischiare il possibile, di non conservare mai niente ma di rimettere tutto in gioco, sia indispensabile a questo paese, e persino a parte della classe politica che lo sente (giustamente, dal suo punto di vista) così estraneo, così altro. Marco infatti, per nostra fortuna e per la fortuna di questo paese, è sempre stato ed è altro. Ed è esatt

amente questo altro - che i cittadini hanno sempre riconosciuto - che forse fa tanta paura a certi oligarchi o ad altri che oligarchi non erano ma che lo vogliono diventare a tutti i costi. E' strabiliante vedere ad esempio Silvio Berlusconi, che certamente oligarca non era, volere a tutti i costi fare una politica delle oligarchie, come se non ce ne fossero già abbastanza. Altro avevamo sperato, altro credo questo paese aveva sperato.

Credo che Marco sia la personalità politica più capace a fare la differenza tra micro-conflittualità inutili e sterili e i veri conflitti, che - quando posti con chiarezza - sono sempre stati elemento di progresso, elemento di rinascita, appunto. E penso non solo ai referendum scorsi quanto alla sua continua capacità di non cadere nella conflittualità meschina sapendo invece imporre, creare, guidare, incanalare nelle regole democratiche conflitti che poi sempre si sono risolti in progresso delle coscienze e del nostro paese.

Ho iniziato con Rosselli e chiuderò con Rosselli: "liberi non si nasce ma si diventa liberi e ci si conserva liberi solo mantenendo attiva e vigilante la coscienza della propria autonomia e costantemente esercitando le proprie libertà ". Questa è la nostra scommessa, per noi e per questo paese.

 
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