Corriere della Sera, domenica 4 aprile 1999, pag. 4
"Derubati di tutto, sfiniti dalla fame. Solo la forza salverà il popolo kosovaro"
Bonino: "Vi racconto l'orrore"
Migliaia oltre il confine macedone in una fila silenziosa e impaurita. Solo utilizzando la struttura militare si può sperare di contenere la catastrofe
Ecco la testimonianza del commissario europeo agli aiuti umanitari dopo la sua visita in Macedonia e Albania.
Deportazione di massa
Non avevo mai assistito di persona a una deportazione di massa. Non avevo mai guardato negli occhi esseri umani che, derubati da poche ore di tutto - salvo la vita e i vestiti che portano - scacciati dalla propria casa e dal proprio Paese, si affacciano senza nemmeno più un documento di identità - senza più identità - a un futuro che appare come un abisso buio, l'inizio di un incubo. Testimone da anni di così tante sofferenze umane, fisiche e psicologiche, non immaginavo quale apice di dolore potesse raggiungere ed esprimere lo sguardo collettivo di un popolo appena sradicato dalla sua terra e scaricato alla frontiera come materiale umano di risulta. Ormai è certo: vanno contati a centinaia di migliaia i kosovari di ceppo albanese che Slobodan Milosevic, dopo averli trasformati in apolidi, riversa sui Paesi vicini, per vendicarsi dell'ostilità che lo circonda e perseguire l'insano disegno di "ri-serbizzare" il Kosovo con la forza. Assistiamo a un nuovo crimine contro l'umanità il cui compimento, oggi, può es
sere scongiurato solo con l'uso della forza. Non impedirlo costituirebbe, soprattutto per cittadini e governanti europei che non hanno saputo impedire Vukovar, Srebrenica, Gorazde, Zepa e Sarajevo, un caso imperdonabile di omissione di soccorso.
La notte in cui da Skopije sono corsa al posto di frontiera macedone di Blace, la notte fra il 31 marzo e il primo aprile, stentavo a credere nella storia dell'andirivieni di vagoni piombati fra Pristina e la Macedonia. E invece i deportati erano lì a migliaia, appena l'avanguardia dell'esodo in atto. Migliaia oltre la sbarra doganale, allineati in una fila silenziosa nascosta dalla notte, altre migliaia al di qua del confine, accampati su un prato come animali impauriti. E gente di città, non ancora segnata fisicamente dalla deportazione, ma vulnerabilissima. Le scorte di pane, acqua e coperte sono quasi finite, e comincia a piovigginare. Il disastro è nell'aria.
Il disastro è nell'aria anche a Kukes, desolata landa della montagna albanese dove giovedì mattina mi deposita un elicottero della Luftwaffe. Qui la beffa di Milosevic è ancora più crudele. Il fiume di umanità contadina che passa la frontiera si accumula come un lago artificiale in mezzo a pietraie inaccessibili. Si contano i primi morti per sfinimento. L'unica stradina che scende sconnessa verso l'Adriatico sta già per cedere sotto le ruote di camion e trattori. Come portare i soccorsi fin qui? Come evacuare le decine di migliaia di deportati verso luoghi più ospitali?
Un'altra cosa diventa chiarissima. Questa è una di quelle grandi catastrofi che (come certi terremoti e inondazioni) nessuna macchina umanitaria civile è in grado di affrontare. Solo facendo ricorso alla logistica militare si può sperare di contenere i danni. Tanto più in un'area il cui spazio aereo è sotto il pieno controllo della Nato.
La destabilizzazione
Riuscirà prima la Nato a scardinare il regime ultranazionalista di Belgrado o riuscirà prima Milosevic a destabilizzare i suoi fragili vicini? Per non dire di una possibile spaccatura del fronte Nato. Me lo chiedo, volando verso Tirana assieme al viceministro tedesco degli Esteri, il socialdemocratico Gunther Verheugen. Le debolezze dello Stato albanese, sopravvissuto negli ultimi anni a prove durissime, non hanno tolto il sorriso al giovanissimo primo ministro Pandelj Maiko che - vantando un passato nel partito radicale transnazionale e un presente nell'Internazionale socialista - si compiace di avere di fronte rappresentanti dei due partiti "cui sente di appartenere".
"I profughi del Kosovo che arrivano da noi - promette - potranno rimanere nel nostro Paese fino a quando non saranno in grado di tornare nelle loro case".
E una linea coraggiosa e intelligente, concepita per ottenere insieme la benevolenza dei governi europei, il massimo di aiuti e il riconoscimento di Tirana come interlocutore privilegiato della comunità internazionale. All'ottimismo e alla determinazione di Majko fanno purtroppo ombra le carenze strutturali della sua amministrazione, l'illegalità diffusa, gli appetiti degli "scafisti". Il presidente albanese, il saggio e moderato Rexhep Meidani, ce lo dirà chiaramente: "C'è il pericolo che l'opposizione albanese cerchi di capitalizzare su questa tragedia rispondendo all'estremismo serbo con la mobilitazione dell'estremismo albanese e trascinandoci nella guerra".
In Macedonia, che al confronto dell'Albania appare un Paese agiato e funzionante, la musica è un'altra. Il delicato equilibrio politico-istituzionale macedone, costruito a misura del mosaico di etnie e partiti che rappresentano i suoi due milioni di abitanti, non reggerebbe il travaso di 100 o 200 mila albanesi. Qui ci sono gli ingredienti di un possibile "sbocco libanese", la cui scintilla potrebbe essere accesa o dalle intemperanze della comunità serba (che già qualcuno vede come una "quinta colonna" di Belgrado) o dalla frustrazione della comunità albanese ai cui rappresentanti (fra i quali un paio di amici radicali) va il merito di mantenere i nervi saldi. Tutto questo lo sa bene Milosevic, che manda qui i suoi treni piombati, e ce lo confermano tutti i dirigenti di Skopije: il presidente Gligorov, il primo ministro Georgieski e la metà del suo governo, schierato per invocare aiuti materiali urgenti ma soprattutto un piano di evacuazione del maggior numero possibile di rifugiati verso Paesi vicini e lon
tani.
Come l'Albania e la Macedonia, potrebbero esplodere anche la Bosnia e il Montenegro, sotto l'onda d'urto delle deportazioni "mirate" di Milosevic. L'urgenza di un'offensiva umanitaria vasta e complessa e l'urgenza di mettere fine alla carriera politica e militare del "piccolo Hitler serbo" si intrecciano, di ora in ora, sempre di più.
Si poteva fare meglio?
Sulla via del ritorno, di corsa, per essere alle 5 del pomeriggio del primo aprile a Petersberg, alla "Conferenza sulla stabilità del Sudest europeo" convocata in fretta e furia dalla presidenza tedesca dell'Unione europea, mi preparo mentalmente ad affrontare le prevedibili critiche dei media: come mai voi umanitari non avevate previsto tutto questo? Come mai non era già tutto pronto alle frontiere?
Sono combattuta fra due linee di difesa, una razionale e l'altra viscerale. La ragione dice che l'accaduto supera di gran lunga gli scenari, anche i più pessimistici, approntati da tempo dagli esperti delle Nazioni Unite e di tutte le maggiori agenzie umanitarie del mondo. Nessuno aveva previsto la determinazione di Milosevic a usare le ondate dei profughi come "bombardamenti umani" contro i suoi avversari. Le viscere mi impongono di protestare a voce alta contro gli eccessi di Realpolitik che da dieci anni impediscono alle cancellerie europee di trattare il regime di Belgrado come merita e all'ondata di maccartismo amministrativo - interna alle istituzioni europee - che da nove mesi costringe Echo, l'ufficio umanitario europeo sotto la mia responsabilità, presente in oltre 70 Paesi del mondo, a dedicare più energie ai controlli e alle inchieste su fatti e misfatti - veri o presunti - risalenti al 1993 che non alle disgrazie del mondo.
E l'Italia?
Toglie il sonno la deportazione dei kosovari, probabilmente oltre un milione. Ma dei deportati, sapendo dove sono, siamo almeno sicuri che sono vivi e saranno aiutati. Io continuo ad arrovellarmi ancora di più per la sorte dei kosovari, oltre un milione, che non sono stati sospinti alle frontiere. Nulla sappiamo della loro sorte e molti sono gli indizi che fanno temere il peggio. Mi piace pensare che anche l'Italia riuscirà a contribuire all'azione che finalmente fermerà Milosevic e i suoi macellai.
di EMMA BONINO