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Venticinque Leone - 10 aprile 1999
Perego

Da Giù nel Nord, di Antonio Albanese

Noi nella mia famiglia lavoriamo tutti. Da generazioni. Mio nonno ha fatto il capannone piccolo, mio padre il capannone grande, io il capannone grandissimo. Mio figlio si droga.

Ha capito che non riuscirà mai a fare un capannone più grande del mio. Ho provato ad aiutarlo con delle sberle, qualche calcio, poi ho provato anche con le maniere forti: niente. Ogni tanto viene a trovarmi in capannone e mi guarda senza dire una parola e io per fargli coraggio gli dico da Perego a Perego: "Manuel! Se tieni duro un giorno sarai proprio qui, dentro questo capannone di Eternit, seduto sulla tua sedia di compensato, con la tua bella scrivania di truciolato, con davanti questo bel blocco di fatture, il tuo bel timbro, il calendarietto, la statuina-barometro, sarai al posto del tuo papà". Un quarto d'ora dopo era già a farsi una pera.

Il mio capannone e lungo dodici metri e largo quattro. Il mio capannone e fatto di Eternit, e con l'Eternit non si scherza: e pieno di amianto, produrlo e montarlo e un gioco da ragazzi. E smontarlo e distruggerlo che e impossibile: si rischia il cancro. L'Eternit non è un materiale, e un monito: nessuno distrugga ciò che l'uomo ha costruito. Il tuo bel capannone, una volta che l'hai piazzato lí con la tua bella gru, sai che nessuno verrà più a romperti i coglioni. Se il dio egizio, Tutankamen, si fosse fatto la sua bella piramide di Eternit, col cazzo che gli profanavano la tomba. Ma arriviamo al punto: sorridiamo. Dentro il mio capannone di Eternit, io fabbrico Eternit. Lo so, e vietato, ma ripeto, io fabbrico Eternit, che servirà a costruire altri capannoni. Non si può fermare l'economia, facciamo tutti Eternit in paese.

Siccome il capannone e sulla statale, è venuto il sindaco, l'ingegner Perego, e mi ha detto che dovevo fare qualcosa per l'estetica. Va bene. D'accordo. Ho fatto mettere intorno una bella siepe di cipressi dell'Arizona. Qui in paese abbiamo tutti siepi di cipressi dell'Arizona: è quel bel cipresso azzurro dalle foglie croccanti che sembra fatto di materiale ignifugo e non ha bisogno di nessuna manutenzione. Non ha parassiti, solo gli zebú adulti riescono a intaccare il fogliame. E qui di zebù adulti non ce ne sono, basta potarlo con la fiamma ossidrica una volta l'anno, e sei a posto. Poi, sul lato della strada, ho messo la scritta al neon con il mio nome: "PEREGO E FIGLI". Sedici milioni solo di scritta al neon. Mio figlio ha rivenduto il pezzo dove c'era scritto "E FIGLI" per pagarsi l'eroina. Poi e scomparso. Mi sono messo alla ricerca come un matto, finalmente, dopo ore e ore e giorni di tribolazioni, la scritta l'ho ritrovata nel posto più ovvio, sopra un altro capannone. Sono entrato dentro e ho detto

al padrone del capannone, un tale, un certo geometra Perego: " Ridammi i miei figli ". E lui mi fa: " Come f ai a dire che la scritta l'e tua? " Allora gli ho stretto ferocemente i testicoli e gli ho ripetuto: " Ridammi i miei figli ", e lui mi fa: " Come fai a dire che la scritta l'e tua ? " " Perché tu non hai figli, deficiente! ".

Era un altro deficiente che fa anche lui l'Eternit. Facciamo tutti Eternit, in paese. Un bel paese. Capannoni con cipressi dell'Arizona e villetta adiacente. Abbiamo tutti una villetta adiacente. Praticamente il nostro paese non e altro che un condominio fatto a fette e disposto in orizzontale. Così se fai casino la notte non si incazzano più quelli di sopra e quelli di sotto, si incazzano i due di lato. Le villette a schiera sono state progettate dagli urbanisti perché spalmare l'odio sul territorio e meglio che concentrarlo in un solo punto. E una questione statica. I pesi vanno distribuiti bene. Quindi i vantaggi sono che: dalla camera da letto entro direttamente in tavernetta. Dalla tavernetta entro direttamente in capannone, mi lavo e mi vesto durante il tragitto. A mezzogiorno e mezza mia moglie mi chiama per il pranzo, entro in cucina col muletto, mangio il primo senza scendere per non perdere tempo, torno in capannone e accendo la pressa, torno in cucina e mangio il secondo, torno in capannone e spen

go la pressa, torno in cucina in tempo per il caffè torno in capannone e accendo la trafilatrice, torno in cucina e mi accendo una sigaretta, torno in capannone e spengo la trafilatrice, torno in cucina e spengo la sigaretta, vado ai servizi passando per il capannone, accendo la pressa durante il tragitto, sbaglio strada e mi ritrovo in camera da letto, spengo la luce e schiaccio un sonnellino, accendo la trafilatrice e spengo la pressa durante il sonnellino, ritento di andare ai servizi e mi ritrovo in cucina, per portarmi avanti col lavoro mangio il pranzo del giorno dopo compresi caffè e digestivo, torno direttamente in capannone senza passare dai servizi, accendo la pressa e svuoto la vescica durante il tragitto. Perché, arriviamo al punto: non abbiamo tempo da perdere noi in paese.

Al centro del paese si erge il nostro vanto, di proprietà dell'architetto Perego: il Grand Hotel Palace Savoy Perego Des Anglais, segnalato dal giornale locale "L'eco del lavoro" non con le banali cinque stelle ma con cinque renne di razza con due coglioni così. Meta di villeggiatura di tutti noi del paese e sogno indelebile di mio figlio che amava divorare intere badilate di pollo alla cacciatora. Ora mio figlio non lo vedo più da molti mesi. E in una comunità. Abbiamo una comunità qui vicino, sistemata in un capannone di Eternit abbandonato. Mi dicono che non migliora. Pazienza.

Io, credetemi, non mi sono mai lamentato di niente, sono un uomo tranquillo. Non vedo le cose a tinte forti, anche perché l'Eternit ha quel grigio uniforme che ti insegna a vivere senza tanti grilli per la testa. Chiedo una cosa sola: che mi lascino lavorare. Noi, qui in paese, chiediamo solo di poter lavorare. Che ci lascino lavorare. Come si lavora qui, non si lavora da nessuna parte. Viviamo per il lavoro. Lavoriamo moltissimo. Per noi il lavoro e sacro. Lavoro, lavoro, lavoro. Una vita di lavoro. Ho visto lavorare il vecchissimo Perego, ho visto lavorare il vecchio Perego, io lavoro. Qui lavorano tutti... e mio figlio si droga. Ma quel che e peggio e che in comunità ogni tanto si innamora. Lo trovo più grave della dipendenza dalla droga. E pensare che quando ero piccolo io, non avevo il tempo di pensare alla ragazza. Bisognava lavorare. Ho sempre pensato a tirare avanti il capannone col papa, e lui, il sensibile, si innamora. Non c'era il tempo di pensare alle donne, mai avuto il tempo di pensare alla fi

ghetta, al pelo.

Però, detto tra noi, sessualmente sono stato abbastanza precoce. La mia prima erezione completa l'ho avuta a cinque anni. Lo ricordo benissimo, ero in magazzino, di fronte a una lamiera ondulata. E stata una rivelazione. Ero ipnotizzato, atterrito dal brivido metallico della sua superficie zincata. Seducente, flessibile, levigata, geometrica, impenetrabile, con tutte le sue curve bene in vista. Niente di strano che mi piacesse. Sembrava quasi che ci provasse gusto a starsene lí tutta nuda e ondulata davanti a me.

Poi e arrivata la pubertà e, anche per me, come capita a tutti, e cominciata l'esaltante ed eroica stagione dell'autoerotismo. In quel periodo potevo concepire mille sfrenate fantasie sul funzionamento del motore a scoppio. Passavo la notte immaginando gli infiniti virtuosismi erotici che eseguono pistoni, cilindri, bielle e bronzine durante le quattro fasi del loro eccitante kamasutra meccanico.

Le prime esperienze vere le ho fatte molto più tardi, se si esclude un amore abbastanza platonico con una macchina etichettatrice molto pudica. Solo baci.

 
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