Davvero ingiusta e anche, sì, ingenerosa, la rappresentazione che la giornalista francese Marcelle Padovani dà di Leonardo Sciascia a ormai dieci anni della sua morte; e dire che un poco la Padovani Sciascia dovrebbe averlo conosciuto, visto che ha realizzato quel bel libro-intervista che si chiama La Sicilia come metafora. Evidentemente la frequentazione non garantisce la comprensione.
Intervistata dal Giornale di Sicilia, la signora Padovani sostiene che Sciascia sarebbe stato il più grande intellettuale, che però si "riduce nelle misere polemiche sulle Brigate Tosse e l'antimafia".
Poiché non specifica, presumo che la signora Padovani si riferisca allo slogan "Né con le BR né con lo Stato" a cui si volle crocefiggere Sciascia.
Sciascia quello slogan non lo pronunciò mai, e anzi ricordo che più d'una volta manifestò, quando se ne parlava in qualche passeggiata romana, un certo fastidio.
Quando le Brigate Rosse uccisero a Genova l'operaio e sindacalista Guido Rossa, l'Espresso chiese a Sciascia se si sarebbe comportato come lui, se cioè anche dopo il delitto pensava che fosse giusto, utile e necessario denunciare i terroristi e testimoniare contro di loro.
Trascrivo la risposta, che gli eventuali increduli possono trovare su l'Espresso del gennaio 1979 e anche nel libro La Palma va a Nord che ho curato, e che contiene articoli, interventi e commenti dello scrittore: "Io non ho nessuna affezione per questo Stato così com'è, ma ne ho molta per la Costituzione. La denuncia quindi è un dovere che ha la faccia del diritto e viceversa. Lei mi chiede: ma proprio io che avrei lanciato la teoria "né con lo Stato, né con le BR"? Io non ho mai formulato questo slogan. Pago le tasse allo Stato italiano, non le pago né voglio pagarle alle BR. Questo slogan è nato dalla deformazione della mia valutazione negativa della classe politica italiana, valutazione che continua a essere tale. Ma ciò significa volere che questa classe dirigente cambi. Ma non che si avveri il sogno delle BR. Naturalmente io mi sarei comportato come Rossa, pur tenendo presente che bisogna sempre fare i conti con il se stesso sconosciuto. Dico di più: dico che denuncerei qualsiasi tipo di reato cont
emplato dalle leggi. Ho dei doveri verso me stesso e verso gli altri, lasciando anche perdere lo Stato. Chi non ragiona così è in un'orbita diversa, l'orbita della disperazione, di chi non crede più in nulla. Posso tentare di capirli, ma non di giustificarli".
Col che, essendo la prosa di Sciascia chiarissima, spero che finalmente si metta la parola fine a questa polemica che ciclicamente si vuole accendere.
Per quel che riguarda invece Cosa Nostra. Nel maggio del 1979, intervistato da L'Ora, Sciascia dice che a suo giudizio "la mafia da fenomeno rurale è diventata fenomeno cittadino e parapolitico; si è trattato di una specie di integrazione nel potere. La mafia non è più apparentemente riconoscibile come un tempo". Intervistato dal Giornale di Sicilia nel settembre del 1980 Sciascia sostiene che "il modo migliore per combattere la mafia è quello di mettere le mani sui conti bancari. Non capisco perché tra l'incostituzionalità del confino e l'incostituzionalità del controllo dei conti bancari i governi abbiano sempre scelto la prima. Anzi, lo capisco benissimo: perché al confino si mandano sempre i soliti stracci, mentre per i conti bancari si sarebbe costretti ad andare più in alto". Da dove ricaverà mai, la signora Padovani, l'idea che per Sciascia non fosse "quell'organizzazione pericolosa che Falcone aveva scoperto"?
Intervistato da Mario Pirani per La Repubblica nell'ottobre del 1991, Falcone dice di aver sempre considerato Sciascia un grande siciliano, profondamente onesto. In altre occasioni dice di essersi formato anche attraverso i suoi libri. Lo scrittore Luca Rossi nel suo I Disarmati (Mondadori) riporta una confidenza di Falcone, mai smentita o emendata; dice Falcone, parlando di sé: "Il fatto è che il sedere di Falcone ha fatto comodo a tutti. Anche a quelli che volevano cavalcare la lotta antimafia. In questo condivido una critica dei conservatori: l'antimafia è stata più parlata che agita. Per me, invece, meno si parla, meglio è. Ne ho i coglioni pieni di gente che giostra con il mio culo. La molla che comprime, la differenza: lo dicono loro, non io. Non siamo un'epopea, non siamo superuomini: e altri lo sono molto meno di me. Sciascia aveva perfettamente ragione; non mi riferisco agli esempi che faceva in concreto, ma più in generale. Questi personaggi, prima si lamentano perché non ho fatto carriera; poi
se mi presento per il posto di procuratore, cominciano a vederci chissà quali manovre. Gente che occupa i quattro quinti del suo tempo a discutere in corridoio; se lavorassero sarebbe molto meglio. Nel momento in cui non ti impegni, hai il tempo di criticare: guarda che cavolate fa quello, guarda quello che è passato al PCI, e via dicendo. Basta, questo non è serio. Lo so di essere estremamente impopolare, ma la verità è questa. Sono convinto che ci sia bisogno di una visione più duttile: non è tutto bianco e nero".
Chiedo scusa per la lunga citazione, ma mi pare importante: perché Falcone si riferisce tra l'altro alla polemica, accesa da Sciascia, sui cosiddetti "professionisti dell'antimafia"; e nella sostanza, al di là dei casi citati, gli dà ragione.
Con buona pace della signora Padovani, se lo scrittore Sciascia è stato il più grande, il polemista e intellettuale Sciascia non è stato da meno. "Intellettuale", disse una volta Sciascia, "era soprattutto chi aveva la capacità, i mezzi e il tempo per tener desta la propria coscienza. Cosa che comporta non il registrare passivamente, ma piuttosto il 'criticare' in forma attiva".
Ci manca, un "intellettuale" come Sciascia, il conforto e il consiglio della sua critica. E per quel che mi riguarda, a mancarmi è proprio quello che per la signora Padovani risulta essere "insopportabile".