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Conferenza Rivoluzione liberale
Venticinque Leone - 5 luglio 1999
E. SCALFARI, "L'ESPRESSO" 8 luglio 1999

Un animale con il conto in banca. Arriva l'individuo-pulce di Nietzsche

Ho riletto nei giorni scorsi due libri che fanno ormai parte dei classici della letteratura politica. il primo, dedicato all'analisi dell'ancien regime e della rivoluzione francese, è di Alexis de Tocqueville e resta uno dei cardini del pensiero liberale. L'altro, assai meno noto, fu scritto alla fine del Cinquecento da Etienne de la Boétie, L'amico fraterno di Montaigne morto in giovanissima età e più volte ricordato dall'autore degli "Essai"; tratta del rapporto tra libertà e servitù, in sostanza del problema del libero arbitrio non dal punto di vista filosofico o teologico ma da quello delle istituzioni politiche e giuridiche. Mi sono venuti in mano per caso mentre tentavo di far ordine in alcuni scaffali; un caso guidato, direi, poiché entrambe le opere - pur così lontane da noi e tra di loro - sono di sconvolgente attualità.

La tesi di Tocqueville è largamente nota: la rivoluzione francese accentuò e anzi portò alle sue conseguenze estreme il centralismo della monarchia inaugurato da Richelieu, proseguito da Mazarino e infine realizzato da Luigi XIV e da Colbert. La rivoluzione completò quell'operazione moderna abbattendo i residui privilegi nobiliari ed ecclesiastici, abolendo i Parlamenti, i poteri degli enti locali e delle associazioni professionali; insomma distruggendo i cosiddetti corpi intermedi che per Tocqueville sono il solo e vero presidio di una società liberale. L'operazione mirava ad accrescere la libertà individuale, affrancandola dai vincoli feudali e lasciando in campo soltanto l'individuo e lo Stato sorretto e legalizzato dalla volontà popolare; ma sboccò nel plebiscitarismo e nel bonapartismo. La rivoluzione si concluse infine nella dittatura fondata sulle sciabole dei marescialli e sulle bocche da fuoco dell'artiglieria. Così Tocqueville.

La tesi di de la Boétie, da un angolo visuale diverso, non è molto dissimile pur precedendo di oltre 200 anni quella di Tocqueville. Erano i tempi delle guerre di religione che insanguinavano l'Europa e la Francia. L'amico di Montaigne vedeva con diffidenza la concezione della libertà al singolare, disgiunta da quella delle libertà al plurale. La sostanza del suo pensiero era che una libertà senza aggregazione di interessi collettivi è come un fiume senza argini: o riesce a scavarsi argini nuovi dentro i quali indirizzare il proprio corso o si trasforma in una palude, ricettacolo di miasmi e di infezioni.

Questi due testi mi sembrano preziosi per capire quanto sta accadendo in questi anni nella società italiana. Larga parte di essa sembra preda di una furia iconoclastica che si esercita in tutte le direzioni. Le generazioni non comunicano più tra di loro, e ciò avviene non per ragioni oggettive ma per consapevole scelta: non vogliono comunicare, e la decisione è stata presa sia dagli anziani sia dai giovani. A nessuna delle due parti interessa conoscere l'altra, le sue motivazioni, il suo linguaggio, la sua cultura (o incultura). Risultato: la famiglia ha perso ogni attitudine a mantenere e trasmettere l'identità.

Fenomeni analoghi si verificano con i partiti, le associazioni sindacali, le imprese, i ceti sociali o classi che dir si voglia. Nessuno di questi che un tempo si proponevano come punti di riferimento e centri di raccolta del consenso esercita più capacità di attrazione. L'appartenenza è un concetto e un sentimento in via di estinzione. L'astensionismo elettorale ne è uno dei tanti segnali, un altro emerge dalla diminuzione dei lettori di giornali, un terzo dalla scomparsa pressoché completa del sentimento dì classe o di appartenenza a un'impresa. Forse qualcuno dei miei lettori ricorderà che cosa significava tra gli operai di Torino essere un anziano Fiat, da quale prestigio e da quanto riconoscimento un titolo di quel genere era circondato. Oggi farebbe soltanto ridere.

Gli esempi potrebbero continuare, e molti se ne consolano. Ho letto un articolo di Barbara Spinelli che trae favorevoli auspici da questa prova di modernità: via le classi, i partiti, il posto di lavoro fisso, via tutti gli schematismi e i gruppi dirigenti che ne celebrano i rituali; trionfi invece l'individuo, il vero, anzi l'unico titolare dei poteri, dei diritti e delle scelte che ne conseguono.

Barbara la conosco bene, è una mente eletta e possiede una cultura finissima, ma è anche un'anima ardente, appassionata, predicatoria. La sua predicazione è sempre stata rivolta contro le ideologie, e contro una di esse in particolare. Adesso ha cominciato a predicare anche contro il concetto di identità: l'identità, sostiene, e un'ingessatura, un vincolo, le bene di una mummia; l'individuo libero e libertario deve gettarla al vento, in cerca semmai di un'identità più vera. Sembra di ascoltare Emma Bonino.

Riconosco che questa predicazione sa di moderno, di giovane e, appunto, di iconoclastico. C'è in quelle parole un che di religioso e perfino di messianico. Ma la realtà è molto diversa. L'individuo, scardinato dalla sua identità e memoria, non cerca nuovi argini dentro i quali far scorrere il fiume della sua vita: finisce in compagnia delle sue pulsioni, dei suoi piccoli o grandi egoismi, delle sue frustrazioni generatrici di violenza, delle sue patatine fritte e dello scipito hamburger che le accompagna. Le sole passioni che veramente gli importano sono la squadra di calcio o di baseball, il gruppo rock, lo stare insieme dietro un capo da seguire e imitare.

lo non vedo in questa prospettiva un accrescimento di libertà. Ci vedo decadenza e afasia. Ci vedo l'individuo-pulce previsto da Nietzsche. Distruggeranno i partiti e forse faranno anche bene; distruggeranno i sindacati e forse faranno benissimo. Ma alla fine distruggeranno la loro mente, coscienza e memoria, e torneranno animali col conto in banca.

In realtà ci siamo molto vicini.

 
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