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Conferenza Rivoluzione liberale
Poretti Donatella - 22 luglio 1999
BALASSONE: "DIAMO IL CANONE A CHI LO MERITA"
Stefano Balassone con Paolo Marcesini

Da RESET

http://www.caffeeuropa.it/

Rai, dirigente e autore di programmi radiofonici e televisivi, Reset ha chiesto di A Stefano Balassone, attuale consigliere di amministrazione della riflettere sull'utilita', la definizione e la missione del servizio pubblico.

Diciamo subito che e' inutile cercare la definizione di servizio pubblico radiotelevisivo nel corpo delle attuali leggi. Non c'e'. Oggi il servizio pubblico in Italia sostanzialmente viene definito attraverso il pluralismo, la creazione di programmi di puro servizio (la sinergia tra televisione e pubblica amministrazione) e la capacita' di raccontare tutto quello che la tv di mercato non puo' raccontare. Questi tre elementi nel dibattito italiano sulla televisione di stato spesso si confondono al punto da rendere incerto persino il significato stesso delle parole.

Perche' questa confusione?

Siamo orfani del monopolio. Quando la televisione era solo la televisione di stato era naturale che il servizio pubblico fosse la convergenza tra programmi, garanzie pluralistiche e collaborazione con la pubblica amministrazione. Di fatto, il servizio pubblico coincideva con la televisione che c'era. .Oggi non e' piu' cosi' e questi tre aspetti vanno esaminati separatamente. ll pluralismo, ad esempio, non ha nulla a che fare con il mandato di servizio pubblico. Oggi il pluralismo va cercato e definito attraverso la presenza sul mercato di piu' soggetti e nella capacita' da parte dell'azienda del servizio pubblico di esprimere pluralismo all'interno del suo assetto proprietario (come ad esempio la Bbc, simbolo di quello che in Inghilterra viene chiamato Public Service Broadcasting, con i suoi dodici governatori).

E la cosiddetta televisione di servizio?

I programmi tv all'epoca del monopolio erano dei diritti di passaggio, delle servitu'. Oggi possono piu' tranquillamente diventare programmi su commessa attraverso le convenzioni. E per questo li puo' fare chiunque. Non e' detto che ci debba essere un'impresa caratterizzata dal fatto che fa programmi di convenzione. E non e' detto che sia sempre conveniente per tutti fare programmi con una determinata azienda. Se fossi nella pubblica amministrazione mi preoccuperei di poter usare tutte le imprese disponibili sul mercato allo scopo di ottenere i migliori risultati comunicativi possibili.

Quali sono le differenze tra le esigenze del mercato e quelle del servizio pubblico?

Non credo che la differenza possa risiedere in una particolare e maggiore sensibilita' a trattare determinati temi. Non ci credo perche' tutti i temi possono ottenere con il pubblico un rapporto utile di mercato. Non dobbiamo dimenticare che stiamo sempre parlando di televisione, quindi di un mass media che per definizione non sopporta l'antitelevisione. La messa in onda di un orario ferroviario, non e' un esempio di servizio opubblico! E non penso che nemmeno il servizio pubblico debba essere quello che soddisfa le manie di ciascun spettatore secondo il criterio del pago anch'io il canone quindi voglio il programma che piace a me e non solo quello che piace alla massa. Sarebbe da dementi pretenderlo.

Il servizio pubblico quindi non deve guardare alle nicchie?

Usereste l'esercito per salvare un gatto che e' salito su un albero? La nicchia e' la vocazione stessa del mercato, perche' il mercato non e' il facile. Il mercato e' tutto cio' che trova la sua remunerazione in un consumo pagante. E' per questo che la nicchia non puo' essere riferita ad una tv generalista terrestre. Sarebbe come lavarsi i denti con un idrante. Ci deve pensare il privato, e ci sta gia' pensando molto bene attraverso le pay tv. Esiste poi una maniera ideologico-istituzionale di servire un gruppo ben determinato di persone ed e' quella per cui una programmazione di nicchia da parte del servizio pubblico accresce lo status simbolico di quel consumo. In realta' in questo caso si vuole ottenere un effetto di attribuzione di prestigio ad un determinato consumo, non si accontenta solo una fetta specifica di spettatori.

Qual e' lo specifico del mercato televisivo?

Bisogna partire dalla constatazione che la televisione e' un'attivita' dai costi decrescenti. Una volta fatto un prodotto, il suo costo non aumenta se si vuole distribuirlo ad un cliente in piu'. A differenza dei libri, dei giornali, delle automobili, dove non puoi incrementare il consumo se non aumentando i costi di produzione, in televisione non si ha un aumento dei costi di fabbricazione all'aumentare il consumo. La televisione si regge su di una legge bronzea: chi ha un prodotto seducente in partenza, poi ha la possibilita' di ripartirne i costi su canali infiniti di distribuzione. Chi ha piu' soldi insomma vince la partita fino alla fine. Nel mercato dei mass media i prodotti qualificanti sia per la narrazione che per l'informazione, la comunicazione di testa e la comunicazione di pancia, finiscono per essere dominati quindi da un'unica logica industriale.

Lei definisce la televisione narrativa. Non sarebbe piu' giusto parlare di programmi di intrattenimento?

No, perche' personalmente mi intrattengo molto anche con l'informazione. La differenza sottesa alla distinzione tra informazione e intrattenimento, ovvero tra alto e basso deve scomparire, non ha piu' senso dividere i programmi tra quelli piu' vicini a Dio e quelli piu' vicini al diavolo. Il servizio pubblico non e' la caratteristica estetico-formale o contenutistico-morale di un programma. In realta' la distinzione andrebbe fatta tra facile, immediato, complesso, diretto, elencando cioe' le caratteristiche funzionali proprie del prodotto e non le sue (presunte) categorie morali. Perche' la funzione di servizio pubblico, ed e' questa la sua giusta definizione, e' quella di presidiare produttivamente le capacita' espressive di una cultura nazionale.

Data per buona questa definizione, come e' comparabile l'offerta di servizio pubblico italiana con quella degli altri paesi europei?

Per quanto riguardo il consumo e la produzione di programmi definiti di servizio pubblico, l'Italia e' al livello della Francia. Gli altri servizi pubblici fanno un po' meno varieta' di noi, e producono molta piu' fiction. Ed e' esattamente quello che stiamo facendo anche noi. La Germania ha un risultato di assoluta importanza e nel medio-lungo periodo va assunta come punto di riferimento perche' quella tedesca e' la televisione piu' rispondente all'obiettivo di far esistere produttivamente la comunita' linguistica nazionale. Noi siamo oggi molto piu' strategicamente servizio pubblico per quello che attiene le capacita' di rigenerazione delle capacita' espressive, di quell'alfabeto mass-mediologico di quella comunita' a cui apparteniamo.

Quindi tutto il palinsesto della Rai corrisponde alla sua idea di servizio pubblico?

E' irrilevante un mio giudizio sulla televisione che facciamo. A volte mi piace a volte no. L'importante e' che piaccia al pubblico. E' come leggere i Promessi Sposi, forse non mi piacciono, pero' non posso negare il loro grande successo. Chiedersi se Il festival di Sanremo o Domenica In e' servizio pubblico e' semplicemente una domanda senza senso. Chi puo' stabilire cosa e' trash e cosa non lo e'? Onestamente, il parere di Umberto Eco vale quanto quello di una casalinga, non dobbiamo dimenticare che viviamo ancora in una democrazia che non deve e non puo' premiare solo il giudizio estetico delle anime belle della nostra classe dirigente.

Credo che una televisione terrestre che trasmetta molti film acquistati all'estero non faccia una buon servizio pubblico anche se sono film bellissimi. E credo che continuare sulla strada del varieta', dell'intrattenimento da studio facile non sia premiante rispetto a una sana logica industriale. Tappa solo una sua oggettiva poverta'. E' premiante invece produrre fiction per la prima serata. Lo abbiamo fatto con successo e continueremo a farlo.

Una volta si parlava di funzione educativa della televisione...

Quando il paese doveva essere alfabetizzato, la televisione ha svolto un giusto ruolo educativo. Adesso riproporlo e' ridicolo.E talvolta persino offensivo. Persino il palinsesto della Bbc, quella che consideriamo la televisione educativa per eccelenza, e' uguale a quello della Rai.

Ha torto o ragione Confalonieri quando chiede quote del canone per Mediaset sostenendo che anche le televisioni commerciali fanno servizio pubblico?

Ha ragione se per servizio pubblico s'intende la raccolta di un budget destinato a incentivare scelte di politica industriale, di medio-lungo periodo, emancipando una parte importante di queste scelte rispetto alla logica di breve periodo che inevitabilmente e' propria della risorsa pubblicitaria.Se siamo d'accordo su questo allora non esistono problemi di principio sul fatto che Mediaset affermi di volere il canone. A patto di prenderlo tutto perche' il canone non e' divisibile, e' un budget che non puo' essere sparso, e non e' nemmeno una sovvenzione che si aggiunge agli introiti di mercato, perche' altrimenti diventa ininfluente nell'orientare le scelte produttive.

In futuro quindi in Italia potremmo avere due soggetti televisivi, Rai e Mediaset, che presentano un loro progetto industriale di servizio pubblico e sulla base di questo chiedono l'esclusiva del canone. Una sorta di asta meritocratica basata sulla qualita' dei programmi?

Potrebbe teoricamente avvenire che lo Stato dopo aver attribuito gli spazi commerciali in concessione ai vari soggetti.presenti sul mercato chieda ai medesimi soggetti di presentare un progetto per una rete interamente finanziata dal canone, senza pubblicita',. Lo stato premia e finanzia il progetto migliore, quello in grado di garantire una migliore qualita' dei programmi e un numero maggiore di ascoltatori.

Per questo e per altri buoni motivi (non ultimo la possibilita' di legiferare sulla televisione senza costrizioni dettate dal duopolio) sarebbe auspicabile una minore presenza dello stato nell'assetto proprietario della Rai. E' d'accordo?

Un governo per avere una legittimita' sostanziale a legiferare in materia di tv, deve prima di tutto allontanare da se' la tv di cui e' proprietario. Nel luglio del 1998 ho fatto un viaggio di studio a Londra per guardare da vicino il meccanismo di gestione della Bbc. E per questo sono d'accordo sulla creazione di una intercapedine di garanzia, ad esempio il comitato direttivo di una fondazione, a cui lo stato conferisca irrevocabilmente la proprieta' della Rai. I membri del comitato direttivo della fondazione, alias azionista della Rai, verranno nominati dai vertici istituzionali del paese e dovranno avere una durata di mandato tale da renderli il meno sensibili possibile agli svolgimenti della poltica rappresentativa. Questa soluzione mi sembra idonea, tra l'altro, al carattere tendenzialmente bipolare del nostro sistema politico. Ci saranno, come e' giusto che sia, nel Parlamento delle maggioranze piglia tutto, e non si possono lasciare i mass media al gioco delle maggioranze piglia tutto. Tanto piu' quan

do il leader di uno dei dei due poli e' proprietario delle televisioni commerciali. E poi il grado di civilta' di un paese si misura dalla distanza che il governo ha dai mezzi di comunicazione. In sintesi, il legislatore deve fare il doppio gesto di mettere un diaframma tra lo stato e la Rai, un diaframma di garanzia, che non ha nulla a che fare con la privatizzazione. La privatizzazione e' una attivita' strumentale ad obiettivi di sviluppo dell' impresa Rai, non e' la soluzione ai problemi istituzionali dell'impresa Rai.

E il secondo gesto?

Adoperarsi per sbloccare la competitivita'. In Italia c'e' competizione ma non c'e' concorrenza. Rai e privati competono per l'ascolto ma la ripartizione dei ricavi pubblicitari non rispecchia quella del pubblico perche' Rai e privati rispettano diversi "tetti di affollamento pubblicitario". In altre parole la battaglia degli ascolti non ha una vera ricaduta sulla battaglia dei fatturati. I divari di pubblicita' vendibile tra la Rai e i competitori privati sono tali da rendere platonico l'esito della battaglia sui palinsesti. La Rai deve impiegare il grosso del canone per compensare i mancati ricavi pubblicitari anziche' per alimentare uno specifico flusso di programmi a base finanziaria pubblica. E' una competizione molto partecipata dai singoli soggetti, ma assolutamente ininfluente per l'azienda. Noi siamo molto contenti di avere quest'anno quei sessanta miliardi in piu', perche' gli ascolti sono andati bene. Ma se fossimo dei privati l'aumento dei nostri introiti sarebbe stato enormemente maggiore. I sol

di che non abbiamo preso noi sono rimasti nelle tasche di quello che ha perso, nonostante abbia perso. Questa e' concorrenza? Serve uno sblocco dell'attuale situazione attraverso una regolazione - leggera e liberale come approccio e orientata a obiettivi industriuali - prima ch il famigerato mercato globale faccia giustizia dell'illusione , se qualcuno ancora ne e' preda, che aggiornando le vecchie mediazioni si possa continuare in ualche modo a campare. La parola ora passa al legislatore.

 
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