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Conferenza Rivoluzione liberale
Partito Radicale Rinascimento - 1 agosto 1999
V CONGRESSO ITALIANO DEL PARTITO RADICALE
Roma, Hotel Ergife 31 luglio - 1 agosto 1999

Intervento di Emma Bonino, Ergife, 31 luglio 1999

SIAMO UN PARTITO DI GOVERNO

Care amiche e cari amici, caro presidente, cari ospiti,

Dopo questi ultimi mesi così intensi di iniziative e cose nuove, quelle di cui ci ha giustappunto parlato il coordinatore Marco Cappato, un congresso - il quinto a carattere "nazionale", italiano" del partito radicale transnazionale - era davvero necessario, per incontrarci e ragionare insieme. Veniamo da una grande campagna elettorale europea, nella quale abbiamo potuto riversare l'enorme esperienza di conoscenze, di riflessioni, di iniziative che hanno dato sostanza al partito transnazionale la cui nascita, accompagnata da qualche ironia, rimonta al 1988. Il lavoro compiuto in quella sede comincia a dare i suoi frutti. Lo confermano i tanti italiani che hanno dato fiducia alla lista Bonino, che si è presentata facendosi forte di quella eredità, di quelle lotte ed iniziative.

Forti di questa grande vittoria (ottenuta, lo ricordo una volta per tutte a chi ci accusa di aver imbrogliato le carte, su una indicazione politica chiara e limpida, chiedendo e proponendo "Stati Uniti d'Europa e rivoluzione liberale", in netta separazione e distinzione dalla campagna referendaria già avviata, con i quesiti già depositati in cassazione) possiamo oggi tornare serenamente a volgerci alle cose di casa nostra. Non già per rinnegare una scelta ma perché riteniamo che proprio l'esperienza transnazionale ci consente oggi di imprimere alla politica italiana un passo, una svolta che la riscattino dalla palude - tutta italiota - cui la condannano le dispute nominalistiche, partitocratiche, parlamentaristiche che si ripetono quotidiane sotto gli occhi degli italiani, dei giovani senza lavoro, degli occupati frustrati nelle loro legittime ispirazioni, dei pensionati gestiti dalle burocrazie sindacali come merce di scambio per sbarrare il passo a qualsiasi scelta di sapore e di valore europeo.

Vengo, come sapete, da quattro anni di impegno in seno alle istituzioni dell'Unione Europea. Ho girato l'Europa e il mondo e dovunque mi abbiano portato le esigenze del mio mandato, mi é capitato quasi sempre di sentire l'Italia lontana, estranea, come distratta dalle proprie beghe interne. La distanza mi ha aiutato a cogliere tutto il velleitarismo che ancora spinge tanta parte della nostra classe dirigente a nascondersi dietro una presunta "specificità" italiana per sfuggire alle responsabilità, per ignorare gli ammonimenti delle istituzioni sovranazionali, per vincere i propri vizi e rimandare indefinitamente una modernizzazione che appare a molti inderogabile.

Non è questa, del resto, una situazione nuova nella storia radicale. Quando Marco Pannella animò la battaglia per il divorzio un giornale - credo inglese - scrisse che, grazie a quella battaglia, "l'Italia veniva spinta, recalcitrante come un mulo, nell'Europa e nella modernità". Più o meno in quegli stessi anni, i radicali che tenevano i loro primi comizi elettorali, davanti a sparuti uditori, e ammonivano che il vero "triangolo industriale" sul quale occorreva misurare l'Italia e i suoi problemi non era quello racchiuso tra le città di Milano, Torino e, che so, Bologna - come dicevano i marxisti, i "programmatori democratici" o gli stessi "liberals" di allora - bensì quello che si apriva tra Parigi, Milano e, che so, Düsseldorf, cioè l'Europa - quei radicali, dicevo, li si guardava come stravaganti sognatori.

Avevano ragione, invece, e hanno avuto ragione a tenere duro per decenni, isolati e talvolta irrisi, ma sostenuti dalla convinzione che per fare politica italiana, e non italiota, allora come oggi occorre fare una politica di respiro europeo, transnazionale. Da oltre dieci almeno, ormai, nei nostri testi scriviamo, ossessivamente, che non c'è più un solo problema - economico, sociale, culturale e quindi politico - che possa essere risolto in una prospettiva esclusivamente nazionale, cioè provinciale. Ci sentiamo, anche in questo, gli eredi di Ernesto Rossi, di De Viti de Marco, di Einaudi, di Pannunzio, di Croce, di quanti hanno invocato a gran voce per il nostro paese più libertà e dunque più liberalismo e che per questo sono stati dimenticati; assieme ai fratelli Rosselli e a quanti antifascisti ammonivano che la peste italiana del fascismo poteva essere combattuta e vinta solo nella prospettiva europea. E penso qui ovviamente, in primo luogo, ad Altiero Spinelli. E guardate, oggi, se non è ancora la stess

a peste italiana - che quelli in vario modo denunciavano - il presunto dibattito, il vacuo chiacchiericcio con cui i partiti della nostra partitocrazia si dilaniano, nel più totale disprezzo di ciò che sente e vuole la gente.

Noi denunciamo e respingiamo questo costume politico non per gusto di originalità o per un vezzo intellettuale di partito. Ma perché è il paese intero che paga il prezzo di questo sistema. Eccoci dunque qui, ora, da radicali italiani, per tentare di dare una prospettiva finalmente europea alla nostra politica, per tentare di strapparla al vaniloquio e al cicaleccio. Ci riusciremo? Non lo so: tutto dipende, a me pare abbastanza chiaro, dalla campagna referendaria che sarà oggetto del nostro dibattito di questi due giorni. Ma poiché di tale campagna già molto, se non tutto, è stato detto, consentitemi di andare oltre. Vorrei piuttosto cercare, insieme a voi, di rimettere a fuoco le prospettive e i problemi di politica generale cui dovremo far fronte nel prossimo, anzi immediato futuro, per senso di responsabilità verso i nostri concittadini che ci hanno votato, affidandoci le loro ansie e le loro speranze.

UNA CLASSE DIRIGENTE CHE SEMBRA UNANIME

Consentitemi di fare ricorso a questo punto alle parole di una persona cui mi legano stima e amicizia, il commissario europeo alla concorrenza Mario Monti, cui va il mio augurio di buon lavoro nella sua nuova posizione. Sostiene dunque l'economista Monti che l'Italia di oggi, deve - cito testualmente - "imparare a diventare competitiva". Ma quel che impedisce al nostro paese di essere - cito ancora testualmente Monti - "veloce come gli altri ad acquisire competitività favorendo la formazione di capitale umano, le infrastrutture o una minore pressione fiscale", è - terza citazione testuale - "il tempo. Nella rincorsa alla competitività strutturale, all'Italia manca il tempo. Ha processi di decisione troppo lunghi e complessi...il sistema con cui produce decisioni pubbliche è ancora lento, per motivi istituzionali e qualche volta anche per il costume del dibattito politico". Condivido quasi tutto ciò che dice il professor Monti, anche se dimentica di citare i nostri referendum, almeno come possibile terapia p

er l'Italia. Posso capirlo: è un commissario europeo, e soprattutto ha il linguaggio, lo stile umano, del grande tecnico, che si nega ad ogni contaminazione con la politica. Purtroppo però, se si vuole aprire al nostro paese la prospettiva che Monti invoca con tanta fermezza, è proprio all'iniziativa politica che bisogna affidarsi. Noi diciamo che occorrono i nostri referendum.

Sulla stessa lunghezza d'onda del professor Monti troviamo anche qualche grande capitano d'industria. E' il caso del numero uno della Pirelli, Tronchetti Provera, il quale denuncia - cito anche lui - "lo spettacolo avvilente, indecoroso", dei "veti incrociati i veti incrociati non solo dei partiti, ma ora anche delle "frazioni delle frazioni". Questo "frazionamento", il "prevalere dei conflitti personali", fanno rischiare al paese "l'impoverimento attraverso una continua perdita di competitività", l'approssimarsi, ancora una volta nella storia italiana, di "disastri inenarrabili". Parole sante. Peccato che anche Tronchetti Provera, alla fine di questa lucida analisi, attacchi i nostri referendum. Potremmo dire peggio per lui, e peggio per tutta quell'anima della Confindustria che alle quotidiane lamentele fa seguire solo una sostanziale, inaccettabile, connivenza con l'inconcludenza del governo, di partiti e dei cespugli. Potremmo dire peggio per loro se in gioco non fossero l'immagine e la lungimiranza di C

onfindustria, ma le sorti di noi tutti e delle generazioni che verranno dopo di noi.

Che succede a questo punto? Che, per realizzare il cambiamento invocato da professori, capitani d'industria e ministri in carica, occorre intervenga qualcuno che faccia quello che gli americani chiamano il dirty job. Qualcuno che voglia, e sappia, sporcarsi le mani. Qualcuno che, come noi radicali, consideri il rischio non già un aspetto sgradevole ma anzi come una componente necessaria, alle volte affascinante, in ogni caso irrinunciabile della politica. Bene, ancora una volta noi radicali italiani ci troviamo, e non per caso, nella gratificante anche se scomoda posizione di chi può fare questo dirty job. Di chi è pronto ad assumere il rischio di mettere in pratica le proprie idee senza il timore - che paralizza tanti attori politici italiani - di scomparire per sempre dalla scena.

"SIAMO IN PERFETTA SINTONIA CON IL PAESE"

E' capitato spesso ai radicali di anticipare i temi cruciali della politica italiana. Così è stato nella stagione dei diritti civili, in quella dell'ambiente e delle scelte energetiche, in quella della lotta contro il compromesso storico, per la giustizia giusta e contro le leggi speciali, nella lunga stagione per la riforma elettorale uninominale. La novità, non di poco conto, è che questa volta non siamo in anticipo, ma in perfetta sintonia rispetto alla consapevolezza della gente, come hanno dimostrato i risultati elettorali delle europee. Come tutti hanno capito, infatti, la politica italiana gira infatti oggi intorno ad un solo quesito, che proprio per la sua centralità si cerca di rimuovere dal dibattito pubblico: chi si sporcherà le mani per fare in tempo quello che appare necessario? Quello che noi chiamiamo rivoluzione liberale?

LA SFIDA INFORMATICA

Questo, per noi, non è uno slogan. Significa esattamente individuare il modo per agganciare l'Italia, anche se con spaventoso ritardo, al treno del progresso, dello sviluppo economico e sociale e della piena occupazione, della completa integrazione con la parte più moderna della società europea, per quanto riguarda l'affermazione delle vecchie libertà: ma anche delle nuove. Pensiamo per esempio al mondo aperto dalla rivoluzione telematica, da Internet. Non è possibile che l'Italia debba trovarsi in un ritardo così spaventoso nell'utilizzazione di queste tecnologie - e non solo da parte dei privati, ma anche delle aziende - soprattutto se paragonato alla diffusione dei cellulari, fiore all'occhiello e vanto dei nostri provinciali ottimisti. Questo ritardo, si badi bene, non dipende solo, o tanto, da ritardi tecnici e tariffari. L'ostacolo principale è di ordine culturale: perché Internet è l'espressione esemplare delle nuove frontiere della, o delle libertà economiche e politiche, di quella globalizzazione c

he in Italia è non solo scarsamente diffusa, ma soprattutto è bistrattata e contrastata dai poteri e dagli interessi costituiti. Ma se la cultura di Internet si diffondesse ai livelli medi europei, metà di queste opposizioni sarebbe letteralmente spazzata via, perché Internet se ne infischia delle proibizioni e dei divieti, e supera d'un balzo le leggi e le normative, le bardature, le mediazioni e i divieti sindacali e corporativi che ci si sforza di mantenere vivi. Internet se ne infischia anche dei partiti e delle loro burocrazie, e permette ai loro iscritti di esprimersi in ogni momento e in ogni occasione, con veri e propri referendum, anche sui loro dirigenti. Forse è per questo che Internet viene temuto e osteggiato.

E' chiaro, o dovrebbe esserlo, che questo insieme di problemi, di questioni, di sollecitazioni, investono direttamente e senza mediazioni il sociale, le strutture profonde del paese, non più solamente, o non tanto il sistema politico. Che infatti sfugge, non le affronta, le teme, sa che rischia, se le affrontasse, di essere travolto. Ed è qui il nocciolo essenziale della nostra polemica sull'informazione, con la Televisione di Stato, la Rai. Si ripete spesso la solita astiosa critica ai radicali, che mugugnano, si lamentano, "protestano" perché si sentono esclusi dalla TV. Il punto non è affatto qui, anche se è ovvio denunciare, comunque, le censure anche nei tempi, che abbiamo abbondantemente documentato nell'audizione in Commissione e da Cheli. Ma la questione centrale è che la Rai non adempie al suo compito di servizio pubblico, perché censura i temi profondi del dibattito, della problematica che investe la società e il paese. Dunque diventa essa stessa una complice della incapacità della politica ad affr

ontare le questioni più essenziali, vitali, per il futuro dell'Italia. Ma la Commissione di Vigilanza non vuole accorgersene, e ancora una volta rinvia una decisione: a settembre pare, ma non ne sono sicura. E io qui voglio e debbo ringraziare il presidente della Commissione, Storace, per aver cercato di rompere questa chiusura.

UNA CORSA CONTRO IL TEMPO

Si rinvia, si prende tempo, e così via. Una cosa però è chiara a tutti: ormai non è più in discussione se una svolta liberale e liberista sia giusta e urgente, ma solo chi saprà realizzarla, in quanto tempo, con chi e contro chi. Nessuno più, nella classe dirigente, dal Presidente del Consiglio all'onorevole Amato - il quale adesso minaccia di sbattere la porta se le riforme non saranno fatte e subito - fino all'ultimo imprenditore, nessuno ha il minimo dubbio che l'Italia debba avviare una innovazione profonda in tutti i campi, se non vuole perdere il treno dello sviluppo. Persino coloro che si oppongono con tutte le forze a questa che è una rivoluzione liberale, quelli che fondano il loro potere sui privilegi garantiti da leggi corporative e monopolistiche, sanno che il loro unico obiettivo può essere - non di fermarla - ma di ritardarla, di condizionarla.

Nessuna di queste forze politiche e sociali sa però come riuscirvi. Ed è ovvio il perché: perché quelle esigenze sono opposte, inconciliabili. Fare la rivoluzione liberale significa infatti chiudere con il passato, e in modo ben più traumatico della presunta rivoluzione di "mani pulite". Non basta raschiare in superficie e sfoltire le escrescenze esteticamente più disgustose; occorre tagliare con il bisturi nel profondo della società, a tutti i livelli, toccando e sconvolgendo la vita, gli interessi, le abitudini di milioni di persone.

Noi crediamo di sapere come riuscirci. Bisogna sporcarsi le mani.

Sporcarsi le mani. Per rimuovere i privilegi, le rendite parassitarie, le solide e comode posizioni di rendita monopolistica che ingessano la società. Per ridimensionare drasticamente la presenza soffocante della burocrazia che fa lievitare costi e corruzione. Per smantellare una cultura politica in cui le parole rischio e competizione sono sconosciute, perché vietate.

Sporcarsi le mani. Per la riforma del cosiddetto stato sociale, cioè per tagliar via di netto i blocchi, gli sbarramenti - scandalosi e ingiusti - che decurtano e impoveriscono la busta paga di quelli che lavorano. Per liberare i cittadini da tutte le cosiddette protezioni sociali che impediscono loro, quasi fossero minorenni, di scegliere come meglio tutelare la propria salute e la propria vecchiaia. Per liberarli dalle troppe leggi paternalistiche, burocratiche e soprattutto non richieste dalla maggioranza dei lavoratori che penalizzano imprese, lavoratori e disoccupati a vantaggio di minoranze residue - e in via d'estinzione - di occupati a posto fisso nella pubblica amministrazione e in poche grandi imprese. Per rimuovere le leggi con cui lo Stato si arroga il diritto di proibire ai cittadini, in nome della difesa della loro salute morale e spirituale come del loro benessere fisico, comportamenti o consumi che non limitano né intaccano le libertà altrui.

Occorre sporcarsi le mani per dire chiaro e forte che lo stato d'illegalità che caratterizza il nostro paese, dall'evasione fiscale alla devastazione ambientale, dalla corruzione amministrativa alla espropriazione del diritto all'informazione non è connesso ad una particolare natura indisciplinata degli italiani ma s'incarna nelle specifiche responsabilità di una magistratura e di corpi dello Stato che sulla difesa di questa illegalità hanno costruito il loro strapotere e le loro fortune politiche e personali.

Bisogna sporcarsi le mani, ancora, per ridurre, grazie a una legge finalmente maggioritaria, a due o al massimo a tre i partiti, come anche per ridimensionare lo strapotere dei sindacati che, proprio perché non più rappresentativi dell'intero mondo del lavoro ma solo di una minoranza, rappresentano l'ostacolo maggiore per una politica di piena occupazione e liberazione delle risorse..

In definitiva, e alzando il tiro, occorre sporcarsi le mani per ricentrare il dibattito economico dalle politiche macro a quelle microeconomiche. Mi spiego: in Italia - forse per un riflesso keynesiano e forse per effetto di anni di ossessione con i parametri di convergenza - economisti e commentatori economici continuano a concentrare la propria attenzione sulla politica fiscale e su quella monetaria, come se fossero le uniche determinanti della crescita e dell'occupazione. Possibile che siano così pochi a indagare perché mai la crescita e l'occupazione si siano bloccate in Europa, malgrado tanto risanamento fiscale e tanto rigore monetario? Dov'è il corto circuito? Noi radicali, considerati economisti stravaganti, lo diciamo da anni: il problema sta nella rigidità e nell'eccesso di regolamentazione dei mercati. Di tutti i mercati: del lavoro, del capitale, delle professioni.

Certo, è più elegante e asettico discettare di macroeconomia: qualche punto in più o in meno nei tassi d'interesse, qualche punto in più o in meno d'investimenti pubblici e privati. Noi invece, testardamente, insistiamo che occorre sporcarsi le mani con la politica microeconomica: come far funzionare le banche, il sistema creditizio e la borsa, come smantellare o riformare profondamente gli ordini professionali, come consentire di assumere e licenziare secondo necessità, e così via elencando. Si tratta insomma di operare per sciogliere o spezzare le centinaia di lacci e lacciuoli nascosti nelle pieghe di centinaia di leggi e leggine corporative. E' qui il corto circuito grazie al quale - quand'anche l'economia accenna a crescere - l'occupazione ristagna. Fare questo è, più che una fatica, una rogna, ma ecco cosa significa sporcarsi le mani.

NOI SIAMO DALLA PARTE DEI DEBOLI

Non vorrei che questa nostra propensione a sporcarci le mani alimentasse - soprattutto a sinistra, in seno alla sinistra più saldamente avvinghiata alla sua mitologia - ulteriori ritratti a tinte fosche di noi radicali come belve assetate di sangue operaio, come fautori di un darwiniano sterminio "dei deboli". Noi siamo dalla parte dei deboli. Amartya Sen, lo studioso indiano che proprio per la sua difesa dei soggetti economicamente più deboli ha vinto il Nobel dell'Economia ha scritto - a proposito di Europa e disoccupazione: "Meglio un lavoro flessibile che nessun lavoro, meglio la flessibilità che la rigidità della morte sociale. Tutto, pur di curare il male oscuro del Vecchio Continente". Questo sostiene Amartya Sen, il quale dice ancora, a proposito di flessibilità :"Questo è un argomento scottante, perché viene visto come un modo di colpire i sindacati, che spesso reagiscono restando attaccati a un sistema convenzionale di garanzie. Ma bisogna che tutti capiscano che é nell'interesse dei lavoratori tu

tto ciò che può incrementare l'occupazione, dunque anche la flessibilità". Dedico questa citazione ai nostri sindacalisti.

IL MITO DEL MODELLO SOCIALE EUROPEO

Il tema di fondo da affrontare è capire dove può essere creato il lavoro. Non il lavoro astratto e teorico degli economisti macro. Ma quello reale, vero, possibile. Nelle economie sviluppate una tendenza pluridecennale dice chiaramente che l'agricoltura e il settore manufatturiero hanno sempre meno bisogno di lavoro. Il lavoro, o si riesce a crearlo nei servizi o semplicemente non c'è. Sul totale della popolazione in età da lavoro, la quota di occupati nell'agricoltura e nell'industria è la stessa in Europa e negli Stati Uniti: circa 20 persone su 100. Ma mentre in Europa, sui restanti 80, 40 lavorano nei servizi e 40 non lavorano affatto, negli Stati Uniti 54 lavorano nei servizi e solo 26 non lavorano affatto. Si può pensare e dire del modello americano ciò che si vuole. Ma bisogna sapere che oggi un qualsiasi europeo, rispetto a un qualsiasi americano:

volendo lavorare ha la metà delle chances di riuscirci;

paga molte più tasse, giacché al 1998 la pressione fiscale risultava pari al 46,4% del PIL in seno ai paesi dell'Unione contro il 35,4% degli Stati Uniti.

Paga molto più caro tutto quello che compra: nel 1996 i prezzi al consumo in Europa erano più alti in media del 24% rispetto agli Stati Uniti;

Qualcuno può spiegarmi in che cosa consiste la presunta superiorità del cosiddetto "modello sociale europeo", di questo mito euro-latino che la nostra sinistra non si stanca di contrapporre alle presunte nefandezze del modello anglosassone?

In Italia, in Francia e in Germania, la percentuale degli addetti ai servizi sul totale della popolazione in età da lavoro è la stessa dal 1985! Perché? Provate a chiederlo a chi vuole aprire un negozio, vendere giornali o tabacchi, stare aperto di notte, guidare un taxi, esercitare una professione per la quale ha già conseguito il relativo titolo di studio, dedicarsi al commercio elettronico - e avrete le risposte. Eppure, aprite un giornale, state a sentire Cofferati o Visco e sembra che l'economia italiana sia come quella inglese all'alba della rivoluzione industriale: esistono solo masse anonime di contadini e operai, mentre gli impiegati sono solo quelli pubblici.

Dimenticavo; bisogna sporcarsi le mani anche per fermare l'aumento del debito pubblico trasferito a carico delle future generazioni che ormai ha raggiunto i 40 milioni per ogni italiano. E avere infine il coraggio di dire che uno Stato che sottrae ai cittadini per la spesa pubblica la metà della ricchezza che questi producono, semplicemente abusa dei suoi poteri, mina alla base le ragioni su cui si fonda la sua legittimità. Ha, insomma, spezzato e nega il patto sociale con i suoi cittadini. E' uno Stato che è destinato per queste ragioni ad essere o a divenire totalitario e illiberale.

A questo punto, care amiche e amici, dobbiamo essere consapevoli che siamo - che siete, cominciando da coloro che si danno da fare, sole o pioggia, per fare firmare ai tavoli - l'unico partito che ha la chiarezza ideale, ma oggi anche il consenso e la capacità politica indispensabili per raccogliere le forze necessarie assieme alle quali fare quello che tutti ritengono irrinunciabile e indifferibile. Siamo, soprattutto, l'unico partito consapevole che questa rivoluzione - la rivoluzione liberale - non è il sole dell'avvenire da rinviare a tempi migliori ma la stringente necessità dell'immediato oggi, sotto pena di un disastro.

Ho detto che oggi, per la prima volta nella nostra storia di radicali italiani, se si escludono alcuni momenti conclusivi delle battaglie per i diritti civili, non siamo più soltanto forza "profetica" che anticipa orientamenti politici e culturali, ma esprimiamo in modo chiaro aspirazioni e volontà che percorrono strati maggioritari - che ogni sociologo ormai sa perfettamente identificare - della società, interessi profondi e visibili che spingono le forze produttive, i giovani, tutti coloro che cercano lavoro e, non a caso, si concentrano in aree geografiche ben definite del paese.

SIAMO UN PARTITO DI GOVERNO

Siamo, siete, quindi davvero partito di governo. Non tanto per la dimensione del consenso che abbiamo saputo raccogliere attorno alle nostre liste, quanto per la crescente sintonia con una maggioranza del paese. Solo gli sciocchi possono pensare che la campagna "Emma for President", o gli ultimi sondaggi sul presidente del consiglio, ma anche i risultati dei precedenti referendum radicali italiani siano frutto di suggestioni pubblicitarie e non segni macroscopici di un mutamento politico in atto nella società. Sono ben contenta di lasciare ai nostri competitori politici l'illusione che il nostro successo elettorale sia un fenomeno passeggero, addirittura determinato da suggestioni pubblicitarie. Penseranno i fatti a dare ragione a loro oppure a noi. Come sempre.

Perché tutte le volte che i cittadini vengono alla fine chiamati, con il voto referendario o attraverso i sondaggi, a ad esprimersi su precise alternative - da una parte le posizioni radicali e i volti che le rappresentano e dall'altra parte gli attuali partiti e i loro leader - le maggioranze a nostro favore sono schiaccianti. L'unica cosa che dobbiamo fare è quindi rimanere quello che siamo: proseguire lungo la nostra strada, senza confonderci nella marmellata politica che s'illude di poter essere ancora la protagonista della vita politica italiana; continuare a parlare di obiettivi concreti di governo e non di schieramenti e astruse alchimie politicistiche.

PERCHE' I REFERENDUM SONO IRRINUNCIABILI

Loro si parlano addosso, noi parliamo alla gente. Per questo siamo un partito legittimato a raccogliere forze in grado di governare il paese, in alternativa alle attuali forze, di maggioranza e di opposizione. Dobbiamo solo costruire tenacemente le occasioni in cui il paese possa esprimersi su alternative chiare e secche. Ora invece, dopo la vittoria del 13 giugno, ci chiedono, mi chiedono: "Ma voi con chi state? Sarete a destra o a sinistra?" Domande senza senso, di un corteggiamento politico (diciamo così) francamente incomprensibile. Come se fosse facile, oggi, capire con chi devi parlare per stare a destra o a sinistra. Io, leggendo i giornali, la mattina, non riesco a capire bene chi parla con chi, chi sta con chi, chi cerca di fregare chi, e chi è fregato da chi. Neppure i più lucidi dei politologi - anche laici, anche "liberals", per carità - riescono più a darci consigli persuasivi e credibili. Forse anche loro hanno perso la bussola. Allora io, a dispetto di questi politologi, resto con i nostri re

ferendum. Per tutte le ragioni che ho già chiarito, anche se i molti politologi le ignorano. E ritengo urgente utilizzare lo strumento referendario, i 20 referendum, per raggiungere l'obiettivo. Per responsabilità politica e civile. Chi vuole, può pensare a noi come una azienda che ha, per mandato dei suoi azionisti (in questo caso i nostri elettori) un prodotto da affermare nel mercato, un business plan da rispettare. Il mandato dei nostri azionisti è di provocare - in tempi non superiori ai dodici mesi - profonde e simultanee riforme in senso liberale e liberista nel settore del lavoro, della previdenza, della sanità, del sistema elettorale, dei finanziamenti pubblici, della giustizia.

Sembra difficile, insomma, pensare ai radicali italiani come a una possibile stampella di questo o quell'altro schieramento, come indipendenti di destra o di sinistra. Certamente, noi vogliamo parlare con il Polo e l'Ulivo, con i partiti che ne fanno parte oltre che con le forze sociali. Lo abbiamo sempre fatto. Noi, io stessa, per anni siamo andati a bussare a tutte le porte: quelle dei partiti di destra come quelli di sinistra. Sono anni, decenni che bussiamo a quelle porte, e sempre siamo snobbati e quelle porte restano chiuse. All'epoca della Bolognina, Pannella gridò e si sbracciò con l'allora segretario del PCI sul tema del partito nuovo, da creare assieme. Nel 1994, Berlusconi firmò con noi un accordo che indicava puntualmente le cose necessarie da fare per fare crescere, fin da allora, il Polo verso una autentica capacità di governo liberale per il paese, già allora boccheggiante. Risposta? Fummo espulsi, mentre cominciavano i balletti della Bicamerale, degli accordi per le grandi riforme o la Grand

e Riforma (mi pareva di sentire ancora Craxi!) regolarmente falliti uno dopo l'altro.

Avendo chiaro perché non ci pare possibile - e non per narcisimo di partito ma per le obiettive scadenze storiche e politiche che gravano sul paese - mollare lo strumento referendario, siamo comunque ancora oggi disponibili ad alleanze, ad accordi con chiunque su questi obiettivi. Purtroppo, dagli incontri che abbiamo avuto non mi sembra che ci siano spazi praticabili per convergenze sui tempi e i modi necessari per raggiungerli senza imbrogliare la gente, il popolo italiano, i giovani e i lavoratori con chiacchiere inutili. Prendiamo atto che fino ad oggi né il Polo, né il centro-sinistra, e nemmeno uno dei partiti che fanno parte dei due schieramenti, sono disponibili ad una grande, decisiva battaglia, politica e sociale, sui temi del nostro tempo. Pensano di trovarne altri, nel frattempo, diversi da quelli dei nostri referendum e ugualmente efficaci? Buon lavoro.

CERCHIAMO ALLEATI PER REALIZZARE I NOSTRI OBIETTIVI

Un terreno c'è invece su cui siamo disposti a tutto, proprio a tutto, persino a concepire desistenze nelle prossime elezioni politiche che, grazie ai referendum, potrebbero anche svolgersi fra meno di 12 mesi (Desistenze, ripeto. Ma preciso: per realizzare un programma di governo di Riforme di rivoluzione liberale, liberista e libertaria). E' il terreno delle regole del gioco e del ripristino di ambiti di legalità e di effettiva e leale competizione della politica.

Noi radicali siamo in Italia gli unici - ma per fortuna siamo in buona compagnia nel resto del mondo - a credere che le riforme serie delle regole del gioco politico possono essere assicurate solo da maggioranze definite e non da vaghe e pericolose unanimità, che poi sono solo, temo, inciuci. : Non esistono infatti regole neutrali, ma solo regole liberali oppure non liberali. Le prime possono essere approvate solo da maggioranze che abbiano la forza di contrapporsi a minoranze non liberali. Grazie alle larghe maggioranze in Italia non si è mai fatta da quarant'anni una riforma istituzionale, Quando, grazie al voto referendario, si è messo mano alla legge elettorale che doveva semplificare il quadro politico, quelle maggioranze, quegli unanimismi, quegli inciuci sono riusciti a vanificare la conquista: siamo passati da 8 a 34 partiti.

Mi spiace davvero, amiche e amici, che il Presidente del consiglio, Massimo D'Alema., non sia venuto al nostro congresso, per un dialogo, un confronto, che a noi sembra più che utile, necessario. D'Alema ha affermato che lo strumento referendario è "ormai fortemente logorato". E' un giudizio che ovviamente respingiamo, ma è un giudizio su cui si può sempre discutere, e saremmo stati lieti di avere in merito una "discussione pacata", in questa sede congressuale. D'Alema non è certamente sulle posizioni del senatore Angius, che ai referendum ha portato un attacco brutale, settario e assolutamente irricevibile. Utile e necessario sembrò a noi radicali l'incontro con il suo predecessore alla guida del PCI, l'on. Occhetto, già nel gennaio 1990, quando Occhetto venne ad un nostro Consiglio Federale. Quell'incontro rimase, ahimé, senza frutto, perché Occhetto non volle, o non poté, andare avanti sulla via della fondazione di un nuovo, e grande, partito riformatore, nel quale potessero liberamente confluire le forz

e di innovazione, liberali, del paese. Passarono quattro anni, e Occhetto credette di poter conquistare, con la sua gioiosa macchina da guerra, il governo e il potere. Non gli riuscì, e fu sbalzato lui dal potere. Anche oggi, pensiamo, il dialogo sarebbe necessario più a D'Alema che a noi. D'Alema afferma - non sappiamo quanto per sua volontà e quanto per sua impotenza politica - che i referendum sono "logorati"?. Per la verità, a quel che si sente in giro, il più alto grado di logoramento lo registrano il suo governo e la sua maggioranza: che si sta squagliando sotto il sole di agosto, in coincidenza - una semplice coicidenza, per carità! - con la nostra raccolta di firme referendarie.

Mi spiace molto che non sia venuto nemmeno l'onorevole Berlusconi, perché penso che il dialogo con lui, con il Polo, non debba essere chiuso, almeno non per nostra volontà. Né a ben guardare si può parlare di dialogo interrotto, visto che sono moltissimi gli elettori del Polo, di Alleanza nazionale, che vengono a firmare ai nostri tavoli referendari. A Berlusconi avrei voluto anzi dire, qui, che per me e per noi l'importante non è discutere (ma questo già glie lo abbiamo detto) del seggio bolognese che lui voleva offrirmi, ma sapere quante firme verranno, a Bologna, sui nostri tavoli: anzi, colgo l'occasione per salutare i compagni e amici di Bologna, gli elettori di Guazzaloca e Guazzaloca stesso per il favore con cui essi guardano ai nostri referendum e li sottoscrivono.

L'ENTUSIASMANTE AVVENTURA DELLE FIRME

Non posso evidentemente, come vorrei, nominare tutte le città e i paesi d'Italia dove in questi giorni, fino a ieri ma anche ad agosto e fino alla fine di settembre migliaia di eccezionali, impareggiabili militanti stanno freneticamente raccogliendo firme (quanti volti nuovi, quanti giovani ho visto tra loro, mescolati con altri che da anni ci affiancano nell'improba fatica! - uno spettacolo stupendo, che dovrebbe far riflettere almeno alcuni fra i tanti che piangono su un presunto dilagante disinteresse per la politica) : Torino, Milano - le capitali del primo grande modello di sviluppo industriale, fordista e tailorista; o Padova e Vicenza, dove si sta enucleando il nuovo modello, quello che ci chiede aiuto, aiuto di idee e di iniziativa politica per rafforzarsi e crescere anch'esso, come aspira, a livello di economia mondiale, l'economia da Internet; oppure Firenze, Arezzo e Siena, già roccheforti e monopolio "rosso" e dove i tavoli non fanno in tempo a raccogliere le firme; o infine Palermo, Napoli, Bari

, le capitali di quel Mezzogiorno d'Italia che attende lo sviluppo fuori delle gabbie salariali invocate, difese e costrette da Cofferati, Larizza e D'Antoni - e senza più assistenzialismo di Stato. Ma un appello particolare voglio rivolgerlo ai cittadini di Roma, perché ancora una volta, come sempre dal divorzio in poi, testimonino quale è e quanto forte è l'anima radicale di Roma, l'anima radicale vera, quella del grande sindaco Ernesto Nathan, non quella trasformista di oggi, che getta alle ortiche i valori laici, popolari e moderni per seguire altri - certamente legittimi, ma diversi - obiettivi.

Ma da Torino, da Milano o da Roma, care amiche e amici, al di là del mio saluto, ci viene in queste ore la conferma che il nostro è un grande partito di governo. Che lotta per il governo, per governare il paese. Lotta e si sacrifica, perché sa che senza questa lotta e questi sacrifici non è possibile assicurare un governo all'Italia. Il Presidente della Repubblica, cui va da qui il mio rispettoso saluto, ha ancora ribadito, pochi giorni fa, che l'Italia ha bisogno di stabilità. Certo, la stabilità è importante. Ma, ribadisco, non si possono barattare i tempi lunghi del governo, di un governo purchessia, tenuto in piedi per restare fino al 2001 senza riforme, con i tempi stretti, drammaticamente stretti, concessi al paese dalla sua situazione istituzionale, economico-sociale, dai suoi ritardi e dalle sollecitazioni che gli vengono dalla realtà mondiale. Tra quei tempi - così lunghi - e questi tempi strettissimi e improrogabili c'è un baratro. Se il governo vuole continuare a vivacchiare pur di guadagnare i te

mpi lunghi, sua è la responsabilità. Noi invece ci stiamo confrontando con i tempi strettissimi della crisi incombente. Noi riteniamo sia nostro dovere rischiare ancora, come sempre: sporcarci le mani, fare il dirty job necessario per governare il presente e un auspicabile futuro.

IL SILENZIO DI ROMANO PRODI

E dall'Italia, possiamo ora ritornare all'Europa. E' un passaggio obbligato, come è sempre più chiaro. L'Europa ci aspetta, e noi aspettiamo l'Europa. Purtroppo il presidente designato della Commissione europea. Romano Prodi, pur avendo in questi mesi detto e fatto tante cose; pur essendo generosissimo di richiami alla moralità e all'efficienza, ispirati dal buonsenso, non ci ha ancora fatto sapere né quale sia il suo » programma di governo , né tanto meno quale sia la sua visione dell'Europa. Si puo' capire una certa prudenza, almeno fino a quando non avrà formalmente ottenuto l'approvazione del Parlamento Europeo. Quello che non si capisce, che nessun europeo capisce, é l'ostinato silenzio di Prodi sulla sua visione del futuro dell'Unione. Forse Prodi é federalista e condivide la visione che fu di Altiero Spinelli, ma non puo' dirlo perché metterebbe in difficoltà il suo principale sponsor, Tony Blair. O forse Prodi é in cuor suo un euroscettico - alla scandinava - uno che vorrebbe la nostra comunità ri

dotta a semplice zona di libero scambio. Forse, insomma , eccetera . Ma io cosa lui sia non l'ho capito, chiedo scusa.. A differenza di lui, io non ho un tavolino a tre zampe che mi dia informazioni o mi faccia indovinare alcunché. Subito, a settembre, noi dovremo invece riprendere in considerazione l'ipotesi di nuovo Manifesto federalista, per restituire un'anima a questa Europa ferma al post muro di Berlino, al post guerra fredda, al post grandi uomini (come Kohl, come Mitterand), persino al post-moneta unica; e rilanciare con forze, strumenti e progetti nuovi l'Europa politica, la proposta dell'Unione diplomatica e militare. Un'Europa che sia di nuovo pre-qualcosa, capace di progettare. Quella che voleva già un grande europeo, Jean Monnet. Gli chiesero una volta se, sul destino della federazione, lui fosse "ottimista o pessimista". Rispose: Più semplicemente, sono determinato".

Tra Europa e Italia, tra parlamento europeo e referendum, come vedete, non ci manca il da fare. Sarà, insomma, una estate calda e faticosa, per noi militanti. Ma io vorrei da qui invitare i cittadini, gli italiani, di andare, se lo possono, al mare, per avere una estate gradevole e riposante, come meritano. Noi lì li aspettiamo, sulle spiagge adriatiche e tirreniche, perché lì chiederemo loro, grazie alle nuove normative di cui la Rai non vuole dare informazione, le loro firma sui nostri referendum. Sarà l'arma nuova, e speriamo vincente, di questa campagna referendaria ..

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