da IL CORRIERE DELLA SERA, giovedi' 5 agosto 1999di PAOLO FRANCHI
Bisognerebbe essere in malafede per negare che quello di garantire pari opportunita' di partenza a tutti i partecipanti a una campagna elettorale e' un problema serio, la cui mancata soluzione rischia di snaturare la democrazia. Ma bisognerebbe essere in malafede anche per nascondersi che i possibili approcci politici e culturali a una simile questione sono almeno due, l'uno liberale, l'altro proibizionista; e che il governo, con il disegno di legge varato ieri, ha scelto il secondo.
Secondo il punto di vista liberale, si tratta di mettere ogni partito in grado di accedere, secondo le proprie scelte e le proprie inclinazioni, a tutte le forme possibili e lecite di comunicazione politica: occorrera' dunque fissare tassativamente quanto ciascun candidato e ciascun gruppo possono spendere, stabilire un tetto e una normativa per le presenze in tv, consentire a chiunque, se vuole, di fare i suoi spot a prezzi di costo. Questo chiedevano i Verdi e, almeno all'inizio, i Democratici; nonche' i socialisti di Enrico Boselli, perplessi pure, e a ragione, perche' una materia di interesse palesemente comune e' stata trattata alla stregua di un problema di maggioranza. Almeno per il momento sono stati battuti.
Secondo l'approccio che ha prevalso, infatti, non si tratta di studiare come allargare per tutti il ventaglio delle possibilita', ma al contrario di vietare l'umanamente vietabile. Poiche' il rischio della videocrazia e' concreto, e Berlusconi, ma anche Emma Bonino, si sono rivelati abilissimi nell'utilizzare il video, la soluzione migliore e' tenere il piu' lontano possibile la propaganda politica dalla tv.
L'opposizione, Cavaliere in testa, adesso insorge e minaccia sfracelli anche sul terreno, gia' minato, delle riforme istituzionali. Sbaglia. Ma il governo, che dopo un paio di batoste elettorali ha riscoperto il conflitto d'interessi e, per cominciare, questa concezione della par condicio, ha fatto il possibile per indurla in tentazione. Non c'e' presumibilmente elettore del Polo, in queste ore, che non pensi a una vendetta consumata a caldo dal centrosinistra. Ma forse anche molti elettori della maggioranza, almeno tra quelli convinti che la politica non possa compendiarsi soltanto nella caccia a Berlusconi, storceranno il naso.
Alcune delle argomentazioni addotte da Massimo D'Alema per motivare il divieto di spot non sono forse le migliori per rassicurarli. E' ben vero che nella maggioranza dei Paesi europei di spot politici in tv non se ne parla. Ma sostenere che l'apparizione di un leader sul piccolo schermo all'ora di cena potrebbe non solo turbare il pasto degli italiani, ma anche indurli al "rigetto della politica", quasi non disponessero ne' del voto ne' del telecomando, e' onestamente un po' troppo. Cosi' come suona curioso, in un leader che per formazione sa cosa sono un Agit-prop, una Commissione Stampa e Propaganda, una parola d'ordine, e che ha avuto piu' di recente modo di apprezzare l'ospitalita' televisiva di Gianni Morandi, tanto orrore all'idea che possa stabilirsi un nesso tra la pubblicita' e la politica. Per le trasmissioni a pagamento, consentite solo fuori dalle campagne elettorali, il disegno di legge governativo affida all'Autorita' per le Comunicazioni il compito di far si' che abbiano durata "sufficiente" a
dare esatto conto delle posizioni dei partiti. Niente slogan.
Con questa legge, e con la tv, Lenin non avrebbe mai potuto dire che il comunismo e' uguale a soviet piu' elettrificazione, se non fornendo, subito dopo, tutte le spiegazioni del caso.